giovedì 4 agosto 2011

L'anima del niente

Per me ci sono due romanzi siciliani. Uno è “Il Gattopardo”, quel capolavoro in cui Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha spiegato non solo la Sicilia all’Italia e l’Italia alla Sicilia, ma anche i siciliani agli italiani e gli italiani ai siciliani. Il secondo non è un singolo romanzo ma è una singola storia, quella che negli ultimi anni ha raccontato Andrea Camilleri con il suo Montalbano, che ha riconsegnato ai lettori quell’intraducibile modo di esistere che abbiamo in quest’isola. Il resto secondo me è poca roba. Con questa frase so di stare disdegnando la stragrande maggioranza dei nostri autori, ma lasciate che vi spieghi, forse non è proprio così. Il problema è che io sono siciliano, e a un siciliano non gli puoi spiegare la Sicilia. Se sei Camilleri, o Tomasi di Lampedusa, forse gliela puoi raccontare. Altrimenti, come diciamo qui, levaci mano. Perché il siciliano è un po’ presuntuoso, quella cosa che sa non la vuole spiegata da nessuno. Ecco, adesso che ci penso, forse me ne sono scordato uno. Leonardo Sciascia è uno che ha scritto la Sicilia in alcuni suoi romanzi. Mi direte: e le novelle di Pirandello dove le metti? Tra le novelle, appunto. I romanzi di Pirandello sono “Uno, nessuno, centomila” o “Il fu Mattia Pascal”. Lì non c’è la Sicilia, c’è la maschera, l’identità, la spersonalizzazione. La Sicilia di Pirandello è ne “La giara” o “La patente”, ma non sono romanzi. Verga? La stessa cosa. Si , va bene, mi hai raccontato la tragedia dei pescatori di Aci Trezza, ma non l’hai raccontata a me, o ai pescatori di Aci Trezza, l’hai raccontata ai raccoglitori di mele della Val di Non. Ecco a chi servono i romanzi siciliani, a chi sta da un’altra parte. A me i pescatori me li ha raccontati un signore un po’ scorbutico e incazzoso che quando ero bambino mi sembrava un mago quando gli vedevo ‘cusiri ‘a rizza’ o ‘tirari ‘u rizzagghiu’. Che me ne frega di Padron ‘Ntoni, il pescatore per me è il signor Marsala, al magazzino con la porta grigia della Giudecca!

Tutto questo casino per cercare di farvi capire la mia ritrosia per i neoromanzieri siciliani. Mai letto niente della Agnello Hornby, mai letto niente della Torregrossa. Per questo non vi parlo del libro che non ho letto. Giuseppina Torregrossa è amica di mio zio Francesco, e l’ultimo suo romanzo, “Manna e miele, ferro e fuoco” (quello di cui non parlo) è nato praticamente a casa nostra. Quella Plaia dove ho trascorso molte estati della mia infanzia con i miei nonni e i miei zii, dove casa era famiglia, erano storie, erano giochi, erano silenzi, erano riti. Una casa dove ora vengono a stare persone che non sanno neanche chi erano quelli che stavano nelle stanze dove ora dormono. Ecco, a loro può servire un romanzo come questo, può servire che qualcuno gli spieghi la Plaia. A me no, io in quelle stanze ci sono stato, ci ho dormito, e so chi ci è stato prima di me anche se non li ho mai conosciuti, so dove si andava a prendere l’acqua, dove si appendevano le banane, dove si stendeva l’estratto. Lo so perché quando ero piccolo non c’erano computer, film, videogiochi e altre cose del genere in quella casa. Lì, la sera si stava al buio, in terrazza sotto le stelle, e si ascoltavano le persone più grandi raccontare, e c’era la fantasia che ti faceva vedere quelle cose.

Ma allora di che cavolo sto parando? Sto parlando del fatto che ieri sera (31 luglio 2011) alla Plaia è stato presentato il romanzo della Torregrossa (quello di cui non parlo) e insieme all’autrice c’erano ospiti due giornalisti di cui non ricordo i nomi e padroni di una dialettica sovrapponibile per intensità a quella dei ‘cuticchi’ del baglio dove erano seduti, un’attrice di teatro che ha letto alcuni brani con grande maestria interpretativa, e che ai complimenti ricevuti, da persona intelligente ha risposto: “ero molto tesa perché dovevo raccontare a voi le vostre cose, la vostra casa, i vostri nomi” (tanto per tornare al discorso che facevo all’inizio!), e infine c’era Giulio. Giulio Gelardi è un amico di mio zio Francesco ed è anche l’ultimo autentico mannarolo vivente. Come lo definisce mio zio, la massima autorità mondiale in fatto di manna. È stato lui una delle fonti di ispirazione del romanzo, spiegare come ci si è arrivati è molto lungo e non mi va di farlo. Parlo di questa persona perché lui è uno di quelli che ha qualcosa da spiegare ai siciliani da siciliano. Perché come dice lui non si tratta solo di fare manna. Ci ha raccontato di come parla con le piante, di come le piante parlano a lui, attraverso le ‘ntacche del coltello, di come quello che fanno lo fanno insieme agli insetti, ai serpenti, agli uccelli, alla pioggia, al vento. Ci ha raccontato l’anima del niente. Io non sono uomo di campagna, anche se la conosco, sono più affascinato dal mare, dalle onde, dai temporali, da quel signore ca cusi ‘a rizza come per magia, intrecciando il filo con il salemastro, creando quella trama che nella sua testa esiste già. Eppure, ascoltando le parole di questo contadino castelbuonese, questo alchimista della manna, sentendolo raccontare della nobiltà vera della terra e di quella finta dei palazzi signorili, mi è venuto il desiderio di leggere questo romanzo. Perché adesso so che forse c’è qualcosa che mi può spiegare. “Manna e miele, ferro e fuoco” è messo in conto per l’inverno, con calma e senza premura, perché i libri hanno pazienza ma sono esigenti, se non gli dai quello che vogliono si vendicano non facendosi apprezzare, bisogna saper scegliere il tempo. Per adesso, per me non è tempo di manna, per questo non ve ne parlo. Quando lo sarà, lo leggerò, così forse ve ne parlerò. Ma questa sarà un’altra storia. Ora, con rispetto parlando, mi va gghiettu a mmari!

giovedì 7 luglio 2011

Le donne dei comics - Nico Robin


Finalmente sono arrivato a leggere la storia di cui avevo visto solo alcuni spezzoni nell’anime, e che mi aveva lasciato l’amaro in bocca per non averla potuta apprezzare nella sua interezza. Nelle storie che ho letto sono sempre stato affascinato dai personaggi che avevano anche lati ambigui del carattere e della personalità, come Wolverine o Gambit, ma anche Batman per molti versi, o Gatsu. I personaggi nettamente positivi mi suscitano un buonismo che dopo un po’ diventa stucchevole, mentre quelli al margine tra bene e male sono certamente più interessanti e complessi. E interessante e complessa è senza ombra di dubbio la figura di Nico Robin.

Per chi non lo sapesse, sto parlando di uno dei personaggi di One Piece, fumetto giapponese scritto e disegnato di Eichiro Oda, che racconta le avventure di una ciurma di pirati guidati da Monkey D. Rufy detto cappello di paglia. Nico Robin è una componente della banda, ma una che si aggiunge piuttosto tardi rispetto alla formazione del gruppo originale, e che esordisce come avversaria dei protagonisti. Una donna estremamente forte, carismatica, bellissima e sicura di sé, determinata a raggiungere i suoi obiettivi. Estremamente intelligente e coltissima studiosa di archeologia, nasconde qualsiasi emozione dietro un sorriso beffardo e dissimulatore, al punto che difficilmente si può dire cosa stia provando realmente. Unitasi alla ciurma di cappello di paglia per sua stessa richiesta, viene accolta da alcuni con entusiasmo, da altri con diffidenza, ma si guadagna presto il rispetto e poi l’affetto dei compagni dimostrandosi una preziosa alleata grazie ai poteri del frutto del diavolo e alle sue enormi conoscenze.

Ma dietro quel sorriso sardonico e quella apparente noncuranza verso gli eventi che la circondano, Robin cela i segni di un tragico passato. Cresciuta come una bambina emarginata a causa dei suoi poteri, fin da piccola si dedica agli studi, nella speranza che questo possa far tornare la sua mamma partita per svelare il mistero meglio custodito della storia degli uomini. Purtroppo, a causa di uno scontro con il governo mondiale, a soli otto anni è costretta ad assistere alla morte di sua madre, allo sterminio della sua gente, alla distruzione della sua isola e della biblioteca dove era praticamente cresciuta, il tutto per opposizione a quella conoscenza della storia che tanto ardentemente aveva desiderato di ottenere. Sfuggita miracolosamente al destino della sua gente, è costretta ad una vita da ricercata, fatta di furti, sotterfugi, fughe e sacrifici, sempre braccata dalla marina e dal governo, inevitabilmente e inesorabilmente sola. Fino a che non si unisce ad una banda di criminali che vede nelle sue conoscenze di archeologa la chiave per risvegliare un’arma distruttiva senza pari. È proprio in questa occasione che avrà l’opportunità prima di scontrarsi e poi di unirsi alla ciurma di Rufy dal cappello di paglia, diventando a tutti gli effetti una pirata.

Quello che coinvolge nella storia contenuta nel quarantunesimo volume della serie è assistere alle emozioni nascoste di una bambina costretta a diventare donna troppo in fretta, privata dell’infanzia, dei suoi sogni, della famiglia, ma soprattutto del diritto ad avere degli amici. Additata come portatrice di sventura oltre che come criminale, veniva sistematicamente emarginata e isolata, senza mai la possibilità di trovare delle persone che la accogliessero come parte di un gruppo e non solo come una risorsa da sfruttare. Fino a che non incontra Rufy e i suoi, per i quali diventa una di famiglia, una compagna e un’amica, una persona per la quale vale la pena lottare, fare sacrifici, anche soffrire. Qualcosa che nessuno le aveva mai dato. E finalmente, al posto del sorriso dissimulatore di chi nasconde le emozioni, vediamo scendere le lacrime della commozione e della gratitudine nei confronti di chi è disposto a combattere e sacrificarsi per il semplice fatto che lei è parte del gruppo.


- Robin! Dimmi che vuoi vivere!
- Vivere? Credevo... di non averne alcun diritto...

sabato 2 luglio 2011

La realtà


È da tanto che volevo scrivere qualcosa di questo tipo, ma chissà perché non c’è mai stata l’occasione. Ultimamente, mi è capitato più di una volta di scrivere durante i turni di guardia di notte in ospedale, e in effetti l’atmosfera concilia la scrittura. E poi, per parlare di questo argomento, non ci può essere contesto migliore. Anche se mi sforzo, difficilmente riesco a pensare a un personaggio complesso come quello di cui vorrei scrivere stasera. E mi rendo anche conto che, ad una occhiata superficiale, può invece sembrare estremamente banale. Mi riferisco a John Dorian, JD, il protagonista principale di “Scrubs”. Una serie che ho imparato ad apprezzare nel corso delle diverse stagioni, della quale ho scoperto molte sfaccettature e ho trovato molti riscontri nella vita reale e nel mio lavoro. Pochi autori di serie televisive hanno saputo rappresentare la vita ospedaliera in maniera realistica come quelli di Scrubs. Per quanti non lo sapessero, il mondo degli ospedali veri non è certo quello di House o Grey’s anatomy. Non abbiamo stanze che sembrano suite d’albergo a cinque stelle, né decine di persone che lavorano per ogni singolo paziente, né la possibilità di fare tutto subito e nello stesso posto. Al contrario, la vita ospedaliera è fatta di compromessi, di nervosismo, di buona volontà, di sostegno reciproco, di conflitti, di fallimenti, di attriti, di collaborazione. Muoversi in questo contesto è una cosa difficile da imparare, ci vuole molta pazienza, spirito di sacrificio, capacità di adattamento, e bisogna aver sviluppato un buon apparato di meccanismi di difesa.

È proprio per questo che JD è reale, molto più di altri personaggi medici che si vedono sugli schermi. Le battute stupide, i pensieri surreali nel bel mezzo di una frase, fare cose assurde sia al lavoro che nel tempo libero... non sono paradossi fatti solo per suscitare la comicità. Sono quello che ci permette di sopravvivere. Tutti noi, chi più chi meno, a qualsiasi livello di responsabilità e di ruolo, in ospedale ironizziamo su tutto. Dai cognomi assurdi dei pazienti, ai loro comportamenti strani, alle domande assurde. Ci prendiamo in giro tra di noi, ci immaginiamo scenari assurdi, ci stupiamo di quelli reali che sembrano ancora più assurdi. La signora con l’ictus che fa il verso del cane e quella del letto accanto che si mette a gridare come una pazza perché ha paura dei cani... Il paziente che quando gli fai la percussione del torace ti dice “avanti” convinto che stiano bussando alla porta. Sembrano cose da Scrubs, vero? Eppure vi assicuro che sono accadute a me!

- Signor XX, ma che si sente?
- Mi sientu curiusu!

Paziente con demenza: - Allora oggi mi mandate a casa?
Medici: - No, signora, perché domani dobbiamo fare un esame di controllo.
Paziente con demenza: - Ah, va bene.
(Tre secondi netti di intervallo)
Paziente con demenza prende la vestaglia e apre la porta.
Medici: - Signora, ma dove sta andando?
Paziente con demenza: - Ovviamente a casa!

Ma dall’altro lato c’è la grande umanità di JD che lo rende reale. Una persona e non un personaggio, uno che si appassiona ai pazienti, alla loro vita, che li assiste mentre li cura, che si arrabbia se qualcosa va male. E uno per cui gli amici vengono sempre al primo posto. Anche nei contrasti, nelle incomprensioni, negli scontri che possono capitare tra colleghi, se una persona è tuo amico ci si ritrova sempre. Magari con una semplice battuta.

- Scusami, amico, non volevo sembrare un idiota.
- Rilassati, JD... tu sei idiota!

mercoledì 22 giugno 2011

La notte del drive-in

Che Lansdale non sia uno scrittore consueto lo sanno tutti quelli che hanno letto almeno uno dei suoi romanzi. Che sappia fotografare in maniera assolutamente personale alcuni spaccati dell’american lifestyle, soprattutto per quanto riguarda il profondo Sud, è anche questo un dato di fatto e non un’opinione. Questa volta però lo scopro alle prese con un genere particolare, difficile, ostico da trattare, soprattutto se si vuole farlo in maniera originale, vale a dire la fantascienza. In un ambito in cui si è visto di tutto e di più, riuscire a trovare spunti originali e ad organizzarli in un ritmo narrativo di buon livello è tutt’altro che facile, eppure l’autore americano non fallisce neanche questa prova.

Siamo nel profondo Texas, dove la vita è scandita da birra e sale da biliardo, grasso per motori e mandrie, cappelli da cowboy e risse. In questo contesto, l’Orbit, uno sterminato drive-in con sei maxischermi che proietta film horror di serie B non può non rappresentare una tappa obbligata per quei giovani i cui interessi si discostano un minimo dalla normale routine. E ovviamente, la grande serata horror, in cui verranno proiettati sei film a ripetizione, è un appuntamento irrinunciabile. Tuttavia, il destino decide di scherzare un po’ con le vite di qualche centinaio di persone, e una cometa si materializza nel cielo sopra l’Orbit, avvolgendolo in una misteriosa nebbia letale per chiunque cerchi di attraversarla. Ha così inizio il dramma umano di cui Jack si farà narratore e spettatore, pur vivendolo dall’interno, costretto in una prima fase a subire gli eventi, per poi riuscire a ribellarvisi e ad agire, insieme al suo amico Bob.

La pubblicazione italiana di quest’opera racchiude i primi due romanzi che hanno per protagonista il drive-in, ma in realtà li potremmo considerare due capitoli di una stessa storia. Nel primo (Il Drive-in I), Lansdale rappresenta in maniera grottesca ma drammatica allo stesso tempo la sensibilità umana nella condizione di assoluta fragilità derivante da un evento che non riesce a capire e tantomeno a controllare. In maniera lenta e graduale, la situazione della piccola comunità che si viene forzatamente a creare nel drive-in degenera dalla razionalità del far fronte come si può ad un problema imprevisto alla totale follia dettata dalla fame e dall’isolamento, che sfocia nella violenza indiscriminata e fine a se stessa, nello sfogo degli istinti più primordiali che emergono prepotentemente nell’animo di tutti e nella sottomissione a chi si dimostra depositario del potere. Ma c’è posto anche per un po’ di sana critica sociale. Uno degli amici di Jack, un ragazzo di colore fanatico degli effetti speciali dei film, e un meccanico giocatore di biliardo con poche capacità comunicative diventano il substrato ideale per creare l’immancabile mostro della storia. Nella situazione critica che si viene a creare nel drive-in, i due si scoprono stranamente legati l’uno all’altro, due emarginati che si sostengono a vicenda e che finiscono per diventare l’uno per l’altro una sorta di distorta famiglia costituita da un solo individuo. Ed ecco che la mente dell’autore, con questi due materiali grezzi, crea un mostro, attraverso la scarica di un fulmine che li fonde in un unico essere deforme, dotato di incredibili poteri, e capace di incantare le masse, abbrutite dalla fame, con la nuova religione dello spettacolo: la realtà è solo quella che viene proiettata sugli schermi dell’Orbit, e in questa realtà lui, che sfama la gente con prodotti di se stesso, è il nuovo dio, il re del popcorn!

Una situazione simile, ma anche qui con spunti molto innovativi, si svolge nel “Drive-in II”, che come dice lo stesso autore nel sottotitolo, non è “un normale seguito”. Non mi dilungherò molto sulla trama, vi dico solo che seguiremo le vicende di Jack e Bob, fuggiti miracolosamente dal drive-in, che si addentrano nel mondo circostante, che non è più il buon vecchio Texas ma qualcosa di molto diverso e più letale. Conosceremo un nuovo personaggio, Grace, che introdurrà l’elemento femminile in chiave non solo erotica ma anche sociale e psicologica (la sua interazione con Jack e Bob sarà tutt’altro che banale), e avremo a che fare con un nuovo mostro, sempre visto in chiave mediatica. Stavolta, l’alienato di turno si fonderà con il mezzo di alienazione per eccellenza dei nostri tempi: la televisione. E non dico altro, così vi potrete gustare appieno la saga del drive-in. Lettura consigliata a tutti quelli che vogliono scoprire un modo diverso di fare fantascienza. Come dice Niccolò Ammaniti nella postfazione, “Io consiglierei a un analfabeta di imparare a leggere solo per poter conoscere Lansdale”.

L’ultima volta che il chiosco venne aperto, per poco non ci arrivai. Era in corso uno di quei temporali elettrici, il più selvaggio di tutti: lampi blu frastagliati che guizzavano in cielo (o almeno in quello che era il nostro cielo), si scontravano, tracciavano nel buio strane forme, che parevano scacchiere al neon.

sabato 4 giugno 2011

La strada che scende nell'ombra

Questa volta, a differenza di quello che accade di solito, a colpirmi è stato il nome dell’autore, anzi in questo caso dell’autrice. Solitamente, questo è l’ultimo degli elementi che considero in una lettura, tanto è vero che la stragrande maggioranza dei miei libri è opera di gente a me del tutto sconosciuta prima di leggerli. Strazzulla è invece un nome che è suonato familiare alle mie orecchie, perché è un nome tipico del paese, e in generale della zona della Sicilia, di cui è originario mio padre, Augusta. Considerato che i miei nonni hanno vissuto lì per molti anni e che io e la mia famiglia vi abbiamo passato alcune occasioni di vacanza, diverse cose si sono impresse nella mia memoria, e i cognomi tipici del posto sono una di queste. Così, suscitata la curiosità, ho dato un’occhiata al risvolto di copertina, e siccome era un po’ di tempo che non leggevo un romanzo fantasy, mi sono convinto. E in effetti non è stata una brutta scelta.

In un mondo che apparentemente può sembrare l’emblema dell’equilibrio e dell’armonia, sta per scatenarsi una terribile minaccia. Questo mondo è diviso in otto Terre, ognuna appartenente ad una delle Genti, create dagli Dei all’alba del mondo. E, nonostante la varietà degli esseri viventi preveda simpatie e antipatie, amicizie e contrasti, interessi e passioni, tutto sommato che otto popolazioni diverse riescano a convivere da buoni vicini è molto più di quanto noi, nel nostro mondo reale, siamo capaci di fare. Ma qualcosa, un terrore oscuro che giaceva silente da innumerevoli anni, sembra essersi svegliato per devastare con violenza e odio questo stato di cose. Loro malgrado, i rappresentanti delle otto Genti sono costretti ad una collaborazione attiva, e per molti di loro ben poco piacevole, per far fronte a questa minaccia, ma anche tali sforzi non sortiscono effetto, anzi sembrano solo capaci di acuire i contrasti interni e le aggressioni esterne alle Genti indifese. Per tale motivo, l’emissario degli Dei nelle Terre, il Magus, giunge in soccorso con una profezia. Dove le forze vacillano, dove le alleanze crollano, dove i migliori falliscono, forse i peggiori riusciranno. Uno per ognuna delle Genti, i criminali più spietati, abietti e senza scrupoli, votati solo all’egoismo e all’interesse materiale e personale, la peggiore feccia delle otto Terre, terranno in mano il destino di tutti. Inizia così il viaggio di una compagnia molto poco ortodossa, che attraverso scontri e peripezie dovrà affrontare un lungo viaggio per dare una speranza alle Genti. Un viaggio che non è solo materiale, fisico, ma prevalentemente spirituale, con il quale poco a poco gli otto compagni scopriranno concetti che alle loro vite fino a quel momento erano stati del tutto estranei. Concetti come amicizia, onore, altruismo, sacrificio, si faranno largo nel loro animo su una strada che li porterà sempre più nelle profondità del mondo, verso la causa di tutti i mali che forse è anche l’unica speranza di debellarli. Una strada che scende nell’ombra.

Una buona prova per questa autrice siciliana diciottenne, che, senza troppe pretese, riesce a costruire un buon intreccio e un buon ritmo narrativo. Qualcuno potrà obiettare che sono molti i richiami alla narrativa fantasy di sapore classico, i riferimenti a “Il Signore degli anelli” sono ben più che accennati, ma questo a mio parere non sminuisce un romanzo di buona fattura, scorrevole e avvincente come deve essere un fantasy, senza la velleità di rappresentare una svolta nel genere ma anche senza deludere o annoiare. L’elemento dei peggiori è sicuramente interessante, la delineazione delle otto razze di esseri viventi è ben caratterizzata anche dal punto di vista sociale, culturale e caratteriale, i personaggi sono ben delineati, le scene d’azione si alternano in modo adeguato ai momenti di riflessione e contemplazione, c’è un buon crescendo e una buona quantità di eventi radicali e di svolte decisive nella trama. Insomma, una buona prova per un secondo romanzo di un’esordiente in un genere complicato da gestire, come lo è il fantasy. Non mancherà molto perché io recuperi la lettura del suo primo romanzo. Nel frattempo, mi sento di consigliare a tutti gli appassionati del genere di fare quattro passi incamminandosi verso “La strada che scende nell’ombra”.

Nadaret si volse verso Anman, lo sgomento negli occhi. – Anman, - chiese, - questo non può essere evitato?
Anman guardò gli altri Undici e il mondo, e il suo viso era serio e malinconico. – No, - disse, - non può.
- E allora, - chiese ancora Nadaret, - se sapevamo questo, perché abbiamo creato il mondo: per farlo soffrire?
- Perché, - rispose Anman, - il mondo doveva esistere; se non esistesse il male, non ci sarebbe senso nel bene futuro. Il giorno in cui tutte le imperfezioni saranno cancellate è segnato da sempre, ma perché possa venire le imperfezioni devono esserci, anche solo per un momento. Il potere che ci è stato assegnato non deve accecarci. Chi non fa nulla temendo di fare un danno fa in questo modo un danno ancora peggiore. Il mondo aveva diritto di esistere; potevamo forse negargli questo diritto?

lunedì 16 maggio 2011

Scrivo

Poco fa ero affacciato alla finestra e guardavo l’ingresso del Pronto Soccorso. È strano come i pensieri ti raggiungano quando non te li aspetti. È notte, sono di guardia in ospedale, tutto tranquillo, ho fatto il giro, controllato i malati, nessuna emergenza. Ripasso qualcosa, poi magari mi metto a leggere. E invece, guardando un’ambulanza entrare con la luce lampeggiante, mi vengono un mare di pensieri in testa. Ricordi del passato, ricordi di un futuro che ancora non si è verificato, ricordi di un futuro che forse, anzi quasi sicuramente, non si verificherà mai. Che diavolo significano queste cose? Parole in disordine senza nessun nesso logico? Ricordare il futuro? Forse sono i miei neuroni svegli dalle 5.30 di mattina, che hanno sostenuto la tensione degli esami di profitto del primo anno di specializzazione, e che dovranno affrontare una notte in ospedale, e poi una mattina, e poi un pomeriggio? Guardo uno schermo, ci sono delle facce. Vedo una donna con la pancia, congratulazioni. Vedo una ragazza con la chitarra, mi fa piacere. Non vedo l’unica cosa che vorrei vedere. Ricordi di quando ero più piccolo. C’erano tante cose in meno, in me, a quel tempo. Ho fatto passi avanti. Ho corso, ho girato angoli, ho salito scale, ho superato ostacoli, sono caduto, mi sono ferito. Ma questa è l’unica cosa che continuo a sentire, che continua a capitare, che continuo a provare, che continuo a incontrare. Che continua. Sono un medico, curo le ferite. Sono bravo. Non è presunzione, e non c’è falsa modestia. Sono bravo. So quello che so fare, so quello che devo fare, so che non posso non farlo, e lo faccio. E lo so fare. Allora perché l’unica altra cosa che mi manca non riesco a farla? Ho imparato a infilare aghi praticamente in ogni vaso sanguigno del corpo umano, ho imparato a prelevare roba praticamente da ogni cavità, e l’ho imparato da solo, guardando, ascoltando, toccando, rubando, provando. Se tremavo dentro, fuori ero di pietra. Ho guardato negli occhi persone alle quali ho detto che sarebbero morte, ho affrontato la paura, la disperazione e l’odio dei familiari. Non mi sono mai tirato indietro di fronte a queste cose. E poi, mi ritrovo a scrivere una mail, anzi un allegato ad una mail, che forse rimarrà senza risposta. Ho la terribile sensazione di stare scappando. Odio scappare. E odio non capire perché scappo. Anche se forse non sto proprio scappando. Semplicemente, questa cosa non sono ancora bravo a farla. Guardo due occhi azzurri ai quali ho cercato di dare, di trasmettere qualcosa, quello che so. Trasmetti ciò che imparato hai. Ho trasmesso quello che non c’è nei libri, quello che ho imparato con il mio sacrificio, con il mio impegno, con la mia passione. Ho cercato di trasmettere il sacrificio, l’impegno, la passione, a quegli occhi azzurri. E poi scrivo.

mercoledì 11 maggio 2011

Enigma



Beh, che dire… niente male come titolo. Niente cattura l’attenzione come qualcosa che non si capisce bene cosa sia. Misteri, indovinelli, rompicapo, enigmi, sono capaci di suscitare una delle sensazioni innate più affascinanti dell’essere umano: la curiosità. Già solo per questo, un’opera che ha un titolo così la comprerei. Ma qualcuno potrebbe volere di più. Che ne dite di una rivisitazione del concetto di supereroe? Lo so, Alan Moore ha fatto scuola in questo senso, e dopo di lui diversi sono gli autori che si sono cimentati con vari tentativi di svecchiare questa icona della cultura pop. Uno dei miei preferiti, per esempio, è Sam Kieth, che con il suo “The Maxx” ha creato un concetto di supereroe nuovo e del tutto calato in una dimensione surreale e metafisica. Un tentativo dello stesso genere, e anche qui secondo me ben riuscito, l’ha fatto proprio Peter Milligan con questo “Enigma”.

Michael Smith è un uomo qualunque, che vive la sua vita in una spirale infinita di monotonia e insoddisfazione. L’ultima cosa che Michael potrebbe aspettarsi è di vedere comparire nella realtà che lo circonda il suo preferito tra i supereroi dei fumetti della sua infanzia. Un misterioso uomo in maschera si trova a scontrarsi con inquietanti, crudeli e del tutto folli criminali, bizzarri non solo nell’aspetto, ma soprattutto nei comportamenti e nelle intenzioni. In qualche modo Michael si rende conto che quegli eventi e quelle apparizioni sono legati a lui, e decide di partire alla ricerca della ragione di questo legame.

Se dovessi applicargli un’etichetta in una ipotetica classificazione, definirei “Enigma” un romanzo di ricerca. Non solo per quello che riguarda la trama, in cui il protagonista si trova a dover cercare il fantomatico supereroe per poter conoscere le ragioni che ne guidano le azioni, ma soprattutto dal punto di vista della ricerca interiore. Di fatto, svelare il mistero che si nasconde dietro la maschera di Enigma (questo è appunto il nome del supereroe) è la metafora del disvelamento della propria identità, sotto tutti i punti di vista dell’essere umano. Dall’identità sessuale alla coscienza sociale, fino alla capacità di progettare un futuro, Michael scopre, dietro la maschera di Enigma, il vero se stesso. Ma non c’è solo questo nell’opera di Peter Milligan e Duncan Fegredo. Senza ombra di dubbio la possiamo considerare un’opera surrealista e psichedelica, merito soprattutto della componente grafica che aggiunge un livello di narrazione ulteriore a quello della semplice parola scritta. Un vortice allucinante di colpi di scena si organizza nelle pagine di questa storia, ad un ritmo talmente incalzante che non permette al lettore di concedersi pause, merito anche di una trama particolarmente ricca di svolte inaspettate e capovolgimenti di fronte. Un ultimo aspetto degno di nota è la tematica di trasgressione che richiama al contesto socio-culturale degli anni Novanta, e che certamente ha contribuito a influenzare almeno una parte dei messaggi trasmessi dall’opera. Un’opera che vale la pena leggere e conservare come esempio di grande romanzo a fumetti.