lunedì 31 dicembre 2007

Quei sacri valori tanto, tanto fragili...

Oggi, dopo pranzo, sfoglio il giornale, e leggo, tra le prime pagine, un articolo riguardo l’ultimo angelus di quest’anno del papa, dove si legge che Benedetto XVI ha dedicato questo ultimo sermone al valore della famiglia, ribadendo per l’ennesima, estenuante volta, che la famiglia deve essere “fondata sul matrimonio indissolubile di un uomo e una donna”, e “dalla cui buona salute dipende il bene della persona e della società”. Fino all’ultimo giorno dell’anno, la solfa non cambia. Tutti questi appelli alla sacralità di certe istituzioni, alla loro inviolabilità e indiscutibilità, mi fanno pensare una cosa: non sarà che, nell’incessante difendere questi concetti, ci sia una consapevolezza di fragilità ben più grande di quanto si voglia ammettere? Che motivo ci sarebbe di ribadire ogni giorno che l’unica famiglia possibile è quella cristiana, fatta di un uomo e una donna, e via dicendo, se si è davvero convinti della forza di questa istituzione. E soprattutto, perché spaventa così tanto che altri possano scegliere delle alternative, e che queste siano riconosciute come aventi pari diritti alla famiglia tradizionale? Non sarà che questa famiglia tradizionale, a ben guardare, non è poi molto migliore di quelle, diciamo così, alternative? Finora ho posto solo una lunga serie di interrogativi, ma adesso cercherò di dare delle risposte, le mie risposte, sia chiaro, e non dettami ufficiali. E lungi da me il desiderio di offendere alcuno nella sua sensibilità.

Fin da quando ho avuto una maturità sufficiente a pormi certe domande, ho elaborato un concetto mio personale di spiritualità, che condivido solo con pochissime persone, e che considero la mia religione. Però mi rendo conto che altri potrebbero aver fatto percorsi diversi, perché magari le domande che si sono posti saranno state altre, e perché lo sono state certamente le risposte. Entrambi ci saremo chiesti cosa c’è dopo la morte, oppure se ci sia una volontà superiore che dà significato alla nostra esistenza, e avremo trovato le nostre risposte, ma non credo che le une escludano le altre. Non ho paura che, se un altro individuo dovesse scegliere una religione diversa dalla mia, questo indebolirebbe la forza della mia eventuale fede. Non credo che chiamare un dio con un nome sminuisca il valore di un altro dio chiamato con un altro nome. Così come un credente non dovrebbe venir impensierito dal fatto che qualcuno sia ateo.
E seguendo questa teoria, non credo che due persone che scelgono di sposarsi con rito cattolico vedano sminuito il valore del sacramento che si apprestano ad accogliere solo perché, magari a poche centinaia di metri, altre due persone stanno sottoscrivendo un contratto davanti ad un pubblico ufficiale per acquisire gli stessi diritti e doveri come coppia sposata davanti alla legge. Così come non credo abbia alcun valore un sacramento ricevuto controvoglia, o senza piena coscienza. Sono stato battezzato cinque mesi dopo la mia nascita, e sono certo di non aver espresso nessun parere a riguardo in quel momento, ma da adulto ho fatto le mie scelte, e per me quel rito è come se non fosse stato mai compiuto. Allora mi viene da pensare che chi sguaina le spade in difesa del matrimonio tradizionale lo fa perché ha paura che, se ci fosse un’altra scelta possibile, molti sceglierebbero la seconda possibilità. Allo stesso modo, se è possibile avere una famiglia nel vero senso della parola senza essere sposati, o senza essere di sesso diverso, il rischio è che molti scelgano questa possibilità invece di sottomettersi a regole antiquate. E ciò equivale a dire che la gran parte di quelli che si sposano in chiesa lo fanno per abitudine, perché si fa così, non perché lo sentono veramente, così come i bambini si battezzano non tanto perché si crede nel valore del battesimo, ma perché è tradizione, o perché non si sa mai, meglio non correre rischi.

Da bambini, a scuola ci facevano imparare a memoria una frasetta che non sopportavo neanche allora, figurarsi adesso: “La nostra libertà finisce dove comincia quella degli altri”. Niente di più falso. La frase giusta, secondo me, dovrebbe essere: “La nostra libertà comincia dove comincia quella degli altri e finisce dove finisce quella degli altri”. L’unica cosa che dà valore ad una mia scelta, è sapere che esiste un’altra persona che può fare una scelta diversa. Il valore che ha il dio dei cristiani è legittimato dall’identico valore che ha quello dei musulmani, quello degli induisti, quello degli animisti, quello dei buddisti, e anche dal fatto che alcuni scelgano di non avere nessun dio.

Per questo vorrei dire, in un piccolo saluto personale di fine anno, che non è necessario preoccuparsi tanto degli sguardi degli altri, perché in fondo, il vero valore di quello che facciamo è solo dentro di noi, e nessuno, con nessuna legge, potrà mai togliercelo. Sarebbe molto più utile, ma questo è solo un consiglio, che chi si batte per distruggere le idee e le scelte degli altri (magari recitando sermoni in spagnolo per colpire chi legifera a riguardo), impiegasse le stesse energie per dare vigore alle proprie. In questo modo non ci sarebbe il rischio che il matrimonio, la famiglia, e quant’altro, perdano il loro valore intrinseco.

venerdì 28 dicembre 2007

Labilità

Era inizio estate del 2005, stavo ancora nella casa di Palermo in cui ho passato i primi anni della mia vita universitaria. Immerso fino al collo nello studio (e anche in qualcos’altro, che per educazione non nominerò), scandivo le giornate a forza di capitoli ripassati. Avevo comprato questo libro da poco, e non appena finito di leggere quello precedente, cominciai questo, come lettura serale. In breve, però, erano più le pagine lette per svago, che quelle lette per studio, durante la giornata, e per scacciare il senso di colpa mi dicevo che in fondo non stavo perdendo tempo, che so, uscendo a passeggiare o giocando ai videogiochi. La verità era che questo libro mi aveva stregato, rapito, trascinato in una sorta di dipendenza che mi costringeva a iniziare un nuovo capitolo non appena ne finivo uno.

Non conoscevo Domenico Starnone, e purtroppo non ho avuto occasione di leggere altri suoi libri, fino ad ora, ma proprio ieri sono stato in libreria e ne ho visto uno nuovo, che mi ripropongo di comprare a breve. E forse è proprio perché non lo conoscevo che sono rimasto ancora più affascinato dal suo modo di scrivere. Il protagonista del suo romanzo è uno scrittore che scrive un romanzo di cui è protagonista lui stesso. Già questo basterebbe a capire quanto è abile Starnone. Scrivere una storia che ha come protagonista uno scrittore e l’opera che sta scrivendo è, secondo me, la cosa più difficile con cui si possa cimentare chiunque prenda in mano una penna. Ho letto altri romanzi che hanno come protagonisti degli scrittori, e solo chi padroneggia veramente l’arte dello scrivere è in grado di creare queste opere. Penso, ad esempio, a “La metà oscura” di Stephen King, o a “Lila, Lila” di Martin Suter, di cui spero di parlare, prima o poi. A dire il vero, il reale protagonista del romanzo non è lo scrittore, ma sono i suoi fantasmi. Fantasmi che vengono dal passato, sotto forma di una madre bellissima, di figurine di calciatori, di un padre che continua a morire, di un amico d’infanzia. Fantasmi che entrano da porte di memoria lasciate spalancate proprio da lui, che lo assalgono, lo feriscono, lo privano del sonno. E lo fanno scrivere. Perché lo scrivere condiziona ogni aspetto della vita dello scrittore, dal rapporto con la moglie lontana per lavoro, alle apparizioni in pubblico, agli incontri con l’amante. Tutto quello che è la sua vita è espresso dalle parole, anche quello che chiunque altro non saprebbe concretizzare in suoni o segni. Le parole sono un gioco, aiutano a inserirsi nel racconto bugiardo che ci si fa ogni giorno del mondo. E, arrivato a quella che crede essere la fine della sua carriera, vuole esercitarsi a smettere di parlare, e a smettere di scrivere.
È così. Chi scrive veramente non lo fa perché si impegna a farlo. Piuttosto, l’impegno deve essere nel riuscire a non farlo, perché scrivere è come mangiare, dormire, respirare. Si può trattenere il respiro, ma solo se ci si sofferma a pensare come farlo. E non per troppo tempo, altrimenti si rischia di morire asfissiati. Ma anche respirare, o in questo caso scrivere, conduce alla morte. Una morte strana, diversa, una morte che richiede un coraggio particolare per essere accolta.

“Hai finito il libro?”.
“Di fatto, sì”.
“Sei contento?”.
“No. Ma sono arrivato a una conclusione”.
“Quale?”.
“Ho fallito”.
“Che ne sai?”.
“Ho sbagliato strada”.
“In che senso?”.
“Ho pensato che scrivere fosse la continuazione piacevole dei giochi dell’infanzia”.
“E invece?”.
“Scrivere è vivere fino a morire di scrittura ed io, in tutti questi anni, non ho mai avuto il coraggio necessario”.
“Mai?”.
“Solo una volta, a dieci anni. Ma provai tanto dolore, che non sono andato più per quella strada”.

Dal vangelo secondo Fabrizio

Se ne potrebbe parlare per ore e ore senza essere minimamente ripetitivi, eppure, quando si ascoltano certe cose, il più grande desiderio è quello di stare zitti e di apprezzare il valore del silenzio, in cui risuonano ancora le parole della canzone. Una voce roca, calda e profonda, appassionata nella sua tranquillità, nella sua calma.

È il periodo di natale, forse a qualcuno non sembrerà il momento giusto per parlare di queste cose, perché siamo tutti più buoni, le canzoncine si diffondono per le strade, le vetrine sono illuminate, tutti giocano a tombola, e altre stronzate del genere. Mi scuserete se non sono d’accordo con tutto questo. Non do valore religioso a questi giorni, ma ho il massimo rispetto per chi lo fa. Quello che un po’ mi infastidisce è che spesso il natale diventa la scusa per evitare certi discorsi, per non fare qualcosa che in un altro momento si farebbe. Ma soprattutto, non condivido il fatto che per forza bisogna essere felici e contenti come in una favola. Questo atteggiamento superficiale non mi è mai piaciuto, perché le cose brutte succedono anche nel periodo di natale, e ognuno ha il diritto di essere incazzato quanto vuole, ha il diritto di tenere il muso lungo anche al cenone, ha il diritto di voler stare chiuso in casa a riguardare vecchi film in dvd che conosce a memoria. Perché, al di là di tutte le ipocrisie, delle maschere di felicità che ci cuciamo addosso, in fondo tutti quanti non siamo altro che uomini, fatti di emozioni positive e negative insieme. Siamo rabbia e allegria, gioia e violenza, passione e invidia, odio e amore, impastati insieme con lacrime e sangue. Solo questo, nient’altro che uomini.

E proprio di questo parla quello che ho voluto chiamare “il vangelo secondo Fabrizio”. Mi riferisco a “La buona novella” di Fabrizio De Andrè, disco storico, uscito per la prima volta nel 1970, e che da allora ha fatto pensare e innamorare migliaia di fan, e ancora oggi, e poco meno di quarant’anni di distanza, è una delle opere più moderne e intense che io abbia mai ascoltato. Ogni canzone andrebbe studiata e analizzata per ore e ore, e forse sembrerò fanatico, ma non credo che farebbero brutta figura tra i testi di studio in un liceo. Ne ho volute isolare due, cui sono particolarmente legato, e che forse più di altre dimostrano come quella natura umana che molti si ostinano a negare è l’unica cosa che concede dignità e significato alla nostra esistenza.

Via della croce
Poterti smembrare coi denti e le mani,
sapere i tuoi occhi bevuti dai cani,
di morire in croce puoi essere grato
a un brav’uomo di nome Pilato.
Ben più della morte che oggi ti vuole,
t’uccide il veleno di queste parole:
le voci dei padri di quei neonati,
da Erode, per te, trucidati.
Nel lugubre scherno degli abiti nuovi
Misurano a gocce il dolore che provi:
trent’anni hanno atteso, col fegato in mano,
i rantoli d’un ciarlatano.

Si muovono curve, le vedove in testa,
per loro non è un pomeriggio di festa;
si serran le vesti sugli occhi e sul cuore
ma filtra dai veli il dolore:
fedeli umiliate da un credo inumano
che le volle schiave già prima di Abramo,
con riconoscenza ora soffron la pena
di chi perdonò Maddalena,
di chi con un gesto soltanto fraterno
una nuova indulgenza insegnò al padreterno,
e guardano in alto, trafitti dal sole,
gli spasimi d’un redentore.

Confusi alla folla ti seguono muti,
sgomenti, al pensiero che tu li saluti:
“A redimere il mondo”, gli serve pensare,
“il tuo sangue può certo bastare”.
La semineranno per mare e per terra
tra boschi e città la tua buona novella,
ma questo domani, con fede migliore,
stasera è più forte il terrore.
Nessuno di loro ti grida un addio
per esser scoperto cugino di Dio:
gli apostoli han chiuso le gole alla voce,
fratello che sanguini in croce.

Han volti distesi, già inclini al perdono,
ormai che han veduto il tuo sangue di uomo
fregiarti le membra di rivoli viola,
incapace di nuocere ancora.
Il potere, vestito d’umana sembianza,
ormai ti considera morto abbastanza
e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni
degli umili, degli straccioni.
Ma gli occhi dei poveri piangono altrove,
non sono venuti a esibire un dolore
che alla via della croce ha proibito l’ingresso
a chi ti ama come se stesso.

Son pallidi, al volto scavati al torace,
non hanno la faccia di chi si compiace
dei gesti che ormai ti propone il dolore,
eppure hanno un poto d’onore.
Non hanno negli occhi scintille di pena,
non sono stupiti a vederti la schiena
piagata dal legno che a stento trascini,
eppure ti stanno vicini.
Perdonali se non ti lasciano solo,
se sanno morire sulla croce anche loro,
a piangerli sotto non han che le madri,
in fondo, son solo due ladri.


Tre madri

Madre di Tito
“Tito non sei figlio di Dio,
ma c’è chi muore nel dirti addio”.

Madre di Dimaco
“Dimaco ignori chi fu tuo padre,
ma più di te muore tua madre”.

Le due madri
“Con troppe lacrime piangi, Maria,
solo l’immagine di un’agonia:
sai che alla vita, nel terzo giorno,
il figlio tuo farà ritorno.
Lascia noi piangere, un po’ più forte,
chi non risorgerà più dalla morte”.

Madre di Gesù
“Piango di lui ciò che mi è tolto,
le braccia magre, la fronte, il volto,
ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.
Figlio nel sangue, figlio nel cuore,
e chi ti chiama ‘nostro Signore’,
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di paradiso.
Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.
Non fossi stato figlio di Dio
t’avrei ancora per figlio mio”.


Una raccomandazione: adesso che avete letto il testo, correte in un qualsiasi negozio di dischi e comprate l'album (oppure ricorrete ad altri mezzi che non sto a dire...), poi ascoltate le canzoni, e mentre lo fate, magari sul lettore del PC, tornate sopra, e ricominciate a leggere.

lunedì 24 dicembre 2007

Animal man

Non posso certo parlare, senza annoiare, di tutto quello che è stato scritto di questo supereroe. Non mi è possibile neanche, per mia incapacità forse, parlare compiutamente delle storie scritte dal solo Grant Morrison, alle quali comunque mi riferirò. Voglio invece soffermarmi a parlare di un aspetto che è preponderante nel primo ciclo delle storie scritte da Morrison per Buddy Baker, alias l’Uomo animale (traducendo letteralmente). Non perché questo aspetto sia il solo degno di nota della serie, forse neanche il più interessante e certamente non il più innovativo. Ma di certo è quello che più colpisce un lettore poco avvezzo al mondo dei fumetti, e che è costretto a rendersi conto che non ha a che fare solo con dei ‘tizi in costume’.
Per chi scrive, a qualunque livello, schierarsi, prendere una parte, deve essere a mio parere non solo un diritto, ma anche un obbligo. Ne ho abbastanza di perbenisti che conducono talk show senza dire mai come la pensano realmente. Anche chi deve esprimere un giudizio può avere un’opinione, perché se è una persona onesta e intelligente la sua opinione non inficerà il valore del giudizio. E, anche se dovessi avere un unico, disperato lettore, mi sento in dovere verso questo di essere chiaro nei miei punti di vista. Perché dico tutto questo? Perché quello di cui voglio parlare, e di cui parla Morrison, è un tema molto dibattuto.

Non ho familiarità, anzi ho una vera antipatia, per il termine ‘crociata’, ma purtroppo devo usarlo per parlare di crociata animalista. Questo è il grosso punto focale su cui si snodano le prime storie dell’autore scozzese per Animal man. Non voglio neanche accennare agli spunti, sottotrame e indizi seminati in mezzo a queste storie, e importanti per tutto quello che verrà dopo. Parliamo solo di questo.

Nelle prime storie, Buddy Baker, riavuti i suoi poteri, riprende a piccoli passi la sua carriera di supereroe. In cosa consistono questi poteri? Buddy può interfacciarsi con tutto quello che costituisce il regno animale, dal più piccolo batterio ai grandi mammiferi oceanici, assumendone ogni capacità. E di queste capacità fa anche parte un modo di sentire particolare, a tutti gli effetti ‘animalesco’. Ecco quindi che Buddy comincia a immedesimarsi negli animali macellati per l’industria della carne, o in quelli cacciati di frodo per il commercio delle pelli o dei loro derivati. Comincia a sentire cosa si prova quando un habitat naturale viene devastato per scopi di lucro puramente umani. E non gli sta per niente bene, al punto di buttare tutta la carne che trova nel frigo di casa, con grande disappunto della moglie, e di ergersi a difensore dei diritti degli animali. Questi i dati di fatto. Da questo punto in poi fa tutto parte delle mie opinioni personali.

Non c’è dubbio che le barbarie commesse contro gli animali siano a volte tanto orribili da non poterle nominare. Ma gli estremismi non mi sono mai piaciuti, né in un senso né nell’altro. Diventare vegetariani ad oltranza, rifiutare cibo che contenga anche solo l’odore della carne, come il brodo, mi sembra una scelta che non mi permetto di giudicare, ma che non può essere innalzata a titolo di legge, né imposta ad altri controvoglia. Non mi sentirò mai in colpa se provo piacere a mangiare un filone di pane col salame al mattino appena sveglio. Non condivido in alcun modo la violenza gratuita sugli animali, o anche solo il loro sfruttamento (di cui tra poco farò un paio di esempi che di solito passano inosservati), ma non ci vedo niente di male a cibarmene. Non condivido chi va a caccia solo per il gusto di uccidere, sarebbe più corretto se anche il coniglio avesse un fucile, ma non ci vedo niente di male a cacciare un coniglio e cucinarlo per natale con le patate al forno. Quelli a cui mi riferivo prima sono, ad esempio, i circhi con animali, tenuti in gabbia e a volte maltrattati, e questo lo sappiamo tutti. Ma non sopporto neanche chi mi dice che un buon motivo per avere un cane è portarlo al parco per rimorchiare ragazze. In definitiva, niente da eccepire alle campagne contro l’abbandono o le torture, ma non posso ammettere regole oltranziste che violino la mia libertà. E non mi sentirò mai un criminale o un assassino perché non sono vegetariano.


Un ultimo argomento mi preme sottolineare, perché, in quanto futuro medico, ho qualche volta ricevuto attacchi in questo senso. La scienza ha bisogno di progressi, non tanto per gli scienziati, quanto per tutti quelli che oggi si indignano o si incazzano quando si sentono dire che non c’è soluzione a certe situazioni drammatiche. Ammetto che in passato si sono perpetrate crudeltà inaudite sugli animali, travestite da ‘ricerche scientifiche’, però non possiamo ignorare che ogni piccolo progresso nella scienza medica passa attraverso gli esperimenti sugli animali. Altrimenti ci restano solo due possibilità. La prima è rinunciare a qualunque progresso, e accettare che si continuerà a morire di cancro, AIDS, Parkinson, Alzheimer, ecc., e se questa soluzione fosse stata adottata nel 1928, Alexander Fleming non avrebbe mai scoperto la penicillina. La seconda è ammettere l’utilizzo di cavie umane. In passato si è fatto anche questo, e vorrei ricordare a tutti quelli che dicono che la vita di un ratto e quella di un bambino con la corea di Huntington hanno lo stesso valore, che un ragionamento del tutto sovrapponibile a questo lo faceva circa settanta anni fa un certo dottor Mengele. Per chi non lo conoscesse, provi a fare una ricerca su internet, magari sotto la voce “Nazismo e medicina”.

Cose preziose

Eccolo qui, finalmente, il libro che dà il titolo a queste pagine virtuali. Da me citato ovviamente senza alcuna autorizzazione, in puro stile da pirata della rete (non sarà un caso se si dice ‘navigare’), ma con il profondo affetto che mi lega a questo libro. Era inverno, quando ancora in inverno faceva freddo, e io conoscevo già Stephen King, avendone letto altri romanzi, di cui un giorno spero di parlare. Mi colpì subito, impilato per terra insieme ad altri, come era nello stile del vecchio proprietario dell’unica libreria di Cefalù, quel buon Lorenzo Misuraca che tanto rimpiange chiunque nel mio paese abbia la passione per la lettura. Mi dispiace dirlo, ma dalla sua scomparsa quella libreria è diventata inavvicinabile. Ci saranno sì e no un centinaio di libri, metà dei quali sono best-sellers a mio avviso di poco valore e l’altra metà volumi illustrati e fotografici. Chiedere alla commessa un’informazione significa ottenere una sterile lettura di dati ricercati al computer. Ricordo quando, ancora ragazzino ma già appassionato di tutto quello che era ‘carta scritta’, mi trattenevo un’ora o più a parlare con il signor Misuraca, che consigliava libri, aiutava a sceglierli tirandoli fuori dalle pile che affollavano il suo negozio, li recensiva in estemporanea. È buffo, ma non si dovrebbe essere nostalgici a venticinque anni, vero? I ‘grandi’ pensano che noi abbiamo visto troppo poco e da troppo poco tempo per avere nostalgia di qualcosa.

In “Cose preziose” Stephen King dice addio alla sua Castle Rock, immaginaria cittadina del Maine dove aveva già ambientato le vicende di altri romanzi precedenti. E lo fa alla grande, imbastendo una mistura di atmosfere demoniache e sentimentali, tragiche e grottesche.
Sulla vetrina di un negozio del paese un bel giorno compare un cartello con scritto

APERTURA IMMINENTE!
COSE PREZIOSE
UN NEGOZIO COME NON SI ERA MAI VISTO
“Non crederete ai vostri occhi!”

Chiunque lo veda non può fare a meno di chiedersi che cosa potrà mai vendere un negozio che si chiama così. E, quasi attirati da un malefico magnetismo che cattura l’attenzione di chiunque ci passi accanto, tutti i cittadini finiscono per capitarci dentro, e finiscono per vedere qualcosa che desiderano da sempre. Qualcosa che devono avere a qualunque costo. E Leland Gaunt, il misterioso e inquietante negoziante, sembra cucire su misura per ognuno di loro un prezzo irresistibile per l’oggetto desiderato. A patto che l’acquirente accetti di fargli un piccolo favore… E ognuno esce del tutto soddisfatto, e ignaro del vero prezzo che ha pagato per un oggetto che ha valore solo ai suoi occhi. Toccherà allo sceriffo Alan Pangborn far fronte alla pazzia che dilagherà in città, mentre il signor Gaunt, con un ghigno sornione, si gode lo spettacolo di burattini che ha messo su.

L’horror mi ha sempre affascinato molto, ho letto con trepidazione e avidità i grandi classici come “Frankenstein”, “Dracula”, “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signo Hyde”, nonché alcuni racconti di Edgar Allan Poe e H. P. Lovecraft. Ero parecchio scettico sull’horror moderno, credevo che non avrebbe mai avuto il fascino dei grandi temi dell’orrore già narrati nei classici. Mi sono dovuto ricredere leggendo i romanzi di King. Un orrore particolare, il suo, intimista, psicologico, direi quasi empatico, piuttosto che materiale e fisico come era quello cui ci aveva abituato il cinema degli ultimi anni. Un orrore che quasi sempre si annida nella mente dei protagonisti piuttosto che in strani esperimenti o truci omicidi. Un orrore che tiene incollati al libro, una pagina dopo l’altra, non importa quante centinaia queste siano, passeranno comunque in un lampo.
Avrò occasione di riparlarne, forse a proposito di altri romanzi di King, che ho una gran voglia di condividere con i pochi sventurati che leggono queste pagine. Per adesso, buona lettura a tutti.

giovedì 20 dicembre 2007

Domande profonde e il teatro della mente

Questo post si inserisce nel filone di quelli riguardanti storie, secondo me imperdibili, che fanno parte di opere troppo complesse e vaste per essere analizzate nella loro interezza. Così come era stato per “Rito di primavera” tratto da “La saga di Swamp thing”, anche stavolta scomodo Alan Moore, senz’altro il più versatile, audace e poetico tra gli autori di fumetti viventi.

La storia di cui parlo è tratta dal secondo volume della saga di “Promethea”, opera difficile anche solo da inquadrare come genere. Esoterismo, fantasy, eroismo e tanti altri aspetti si intrecciano infatti in queste pagine, stracolme delle psichedeliche trovate stilistiche e concettuali di cui Moore ha fatto il suo marchio di fabbrica.
La storia in questione si inserisce nel punto in cui Promethea, giovane eroina che da poco ha scoperto i suoi poteri, comincia ad addentrarsi nel mondo della magia, e dopo aver studiato sui testi ed aver frequentato un potente mago, si rende conto che è giunto il momento di conoscere la magia dal di dentro. Per far questo, interroga i serpenti che si intrecciano sul suo caduceo, l’arma che porta a mo’ di simbolo. Dalle parole di questi si dipana una filastrocca tutta in rima che spiegherà alla ragazza il vero significato della magia, attraverso un viaggio nella sua mente. Protagonisti di questo viaggio sono in realtà i ventidue arcani maggiori dei tarocchi, che uno alla volta si mostreranno all’eroina, e al lettore, spiegati nel loro significato traslato dai due serpentelli. Attraverso questi, Alan Moore ci spiega l’intera essenza dell’universo e di tutto ciò che esiste, del tempo e della storia, dell’evoluzione dell’uomo, e del ruolo della magia in questi eventi.

In tutto questo, scanditi dall’incessante succedersi dei versi della filastrocca, si inseriscono quegli accorgimenti stilistici di cui parlavo prima. In questi, protagonista assoluto è J. H. Williams III, il disegnatore della saga, che riesce a stabilire un rapporto simbiotico tra i suoi disegni e la sceneggiatura e i dialoghi di Moore. Tutte le tavole della storia sono in realtà un unico lunghissimo disegno che si svolge in senso orizzontale, o meglio ancora circolare. Accostando i margini delle pagine, infatti, si vede come il disegno di una continui in quello dell’altra senza la minima interruzione, e l’ultima tavola si raccorda perfettamente alla prima, in un anello infinito che porta al ripetersi degli eventi, così come la storia, che narrando gli eventi dall’origine dell’universo alla sua fine, può ricominciare ed essere riletta, in un ciclo di eterno ritorno molto caro ad Alan Moore. Anche in altre storie vi sono accorgimenti di questo tipo, come l’utilizzo dell’anello di Moebius, simbolo stesso dell’infinito e dell’unico, su cui per adesso non mi soffermo.

In definitiva, una storia davvero splendida, che solo una mente poliedrica come quella di Alan Moore poteva concepire, e solo una mano vellutata come quella di J. H. Williams III poteva realizzare. Non ho i mezzi per riportare le tavole complete, ma ne trascrivo la parte iniziale della storia, sperando di stimolare la curiosità di chi leggerà queste righe.

[Promethea]:
Va bene, la situazione è questa: sento il bisogno di fare un lungo viaggio per trovare una persona. Un viaggio nella magia. Ho letto un sacco di libri. Capisco le idee intellettualmente, ma non le sento davvero. Devo vedere altro ancora. E anche se mi sento stupida, Bill ha detto che dovevo chiedere a voi. Allora, cosa mi dite?

[Gigino]:
Io sono Gigino. Lui è Gigetto.
Identici siamo sol nell’aspetto

[Gigetto]:
Lui dice “Sì”, io “No” invece sbotto.
Lui sta di sopra, io invece di sotto.

[Gigino]:
Lui è l’immenso, io invece il minuto…

[Gigetto]:
Di’, come possiamo donarti aiuto?

[Promethea]:
Ho… Ho bisogno di capire la magia e credo di essere arrivata a un punto in cui non basta studiare dai libri. Devo capirla dall’interno. Ah…mi ricordate chi è l’uno e chi è l’altro?

[Gigetto]:
Io sono Gigetto. Lui è Gigino.
Il secondo è bianco, il primo corvino.

[Gigino]:
Della magia ti daremo il precetto.
Io sono Gigino. Lui è Gigetto.
Penetrar la magia, almeno in parvenza,
è come entrare nell’intelligenza…
quel celebre show di grande richiamo,
il teatro di ciò che noi conosciamo.
Pensieri in maschera fan lì residenza
sul palcoscenico della conoscenza.

[Gigetto]:
Travestiti da acrobati o da buffoni,
fan salti mortali, evoluzioni!
Qui si lancian parole, roteano idee.
Il mondo scompaia…entrar si dee!

[Gigino]:
Ciò che è all’esterno ora più non esiste.
Dentro son brividi a cui non si resiste.

[Gigetto]:
Scosta il tendone e vedrai iridescente
il circo magico della tua mente.

Cosa resta della lingua

Mentre scrivo queste righe è il 4 dicembre 2007, e pochi minuti fa ho ascoltato il TG1, mentre pranzavo. La voglia di comunicarvi questi miei pensieri viene da due servizi che ho visto proprio in questa edizione del telegiornale. Uno riguardava il tributo ad Enzo Biagi, ad un mese dalla morte. Nel servizio veniva mostrato uno stralcio di una sua intervista in cui diceva che il grande merito della televisione italiana è stato quello di unificare i vari dialetti e di distribuire in maniera capillare sul territorio la lingua italiana. L’altro servizio riguardava la classifica stilata da non ricordo più quale ente statistico sulla preparazione degli studenti delle scuole superiori. In questa classifica, le scuole italiane, e i loro studenti, risultano se ricordo bene trentasettesimi su cinquantasei paesi analizzati, dietro Repubblica Ceca, Lituania, Spagna e altre, per non parlare dei paesi del nord Europa, che occupano i primi posti della classifica. Questi dati mi hanno spinto a chiedermi che cosa resta della lingua italiana e della cultura in generale nel nostro paese. Mi ritornano in mente servizi giornalistici in cui si leggono cifre agghiaccianti: poco più del dieci percento degli italiani legge almeno un libro all’anno. Se consideriamo che siamo più o meno sessanta milioni, e togliendo i bambini sotto i dieci anni (che non è verosimile far rientrare nella categoria di possibili lettori), si può calcolare che sono meno di cinque milioni, in tutta Italia, quelli che sanno cosa sia leggere un libro. Stranamente, mi viene di fare il confronto con certi dati auditel, e mi rendo conto che invece sono ben il ventiquattro percento degli ascoltatori quelli che seguono il programma a mio avviso più volgare e degradante del palinsesto televisivo, che va in onda nella prima fascia pomeridiana sulla principale rete commerciale.

Ricordo che al liceo la mia insegnante di italiano una volta espresse una opinione identica a quella di Biagi, rammaricandosi del fallimento della scuola come mezzo di diffusione della cultura, e cedendo questo titolo alla televisione. Ma questo discorso può valere anche oggi? La televisione è ancora un potente mezzo di trasmissione della cultura, o trasmette soltanto subcultura o peggio ancora franca ignoranza? Forse rischio di sembrare catastrofico, ma credo che stiamo andando incontro ad un fenomeno opposto a quello che avvenne nell’Italia del secondo dopoguerra. Credo si potrebbe chiamare analfabetizzazione: la cultura sta tornando ad essere un fenomeno elitario, un valore ad appannaggio esclusivo di coloro che, per passione, per appartenenza sociale o forse solo per fortuna, vengono a contatto con manifestazioni culturali di ogni tipo. Non dico che tutti dovremmo essere critici d’arte, esperti di musica classica, depositari di profonde conoscenze scientifiche o chissà che altro. Ma quantomeno sapere scrivere e pronunciare due frasi in italiano grammaticalmente corretto, conoscere per sommi capi i grandi eventi storici, avere un’infarinatura del panorama letterario nazionale e internazionale, credo siano tutte cose che dovremmo possedere.

Ma serve davvero dirle, queste cose? In effetti, pensando alle figure meschine che fanno i nostri rappresentanti in campo internazionale, l’unica cosa intelligente da fare sembra essere quella di stare zitti.

giovedì 13 dicembre 2007

Blog e dintorni

Fino ad ora non l’ho fatto, e ammetto che è stata una mia mancanza, perché sarebbe stato giusto parlarne fin dall’inizio. Mi riferisco a quel piccolo elenco di nomi che sta qui accanto, sulla sinistra, sui quali vale la pena spendere sue parole. Come mi faceva notare tempo fa uno degli interessati, non ha molto senso inserire dei link a siti che non si conoscono o si sono visitati appena una volta. Trovandomi d’accordo con questa teoria, mi sembra giusto dedicare qualche riga ad ognuno di quelli presenti sull’elenco. E non volendo fare gerarchie, procederò nell’ordine in cui sono inseriti, che segue un criterio strettamente alfabetico.

“Deliria” è il blog di Concetta Scarpinato, una persona un po’ particolare, certamente fuori dal comune. Non posso dire di conoscerla bene, quindi quel poco che dirò potrebbe non corrispondere all’opinione che ne hanno altre persone legate a lei da più tempo e più intensamente. Se dovessi descriverla in una parola, credo che userei ‘artista’. Laureata all’accademia delle belle arti di Palermo, con una tesi sul fumetto per la quale ha realizzato un adattamento de “La morte rossa” di Poe, impegnata in un percorso di specializzazione di cui sistematicamente mi scordo l’argomento, Concetta è un’espressione logorroica, caotica e stravagante dell’arte. Difficile vederla senza che abbia in mano o addosso qualcosa di sua creazione, da un portafogli a forma di anguria a una borsa, da un ciondolo-Bejelit a degli enormi disegni che per me rappresentano solo dei piedi, ma io sono un ignorantone in materia di arte, quindi il mio non è un commento offensivo, almeno non nelle intenzioni. Il suo blog nasce dal desiderio, o forse dall’esigenza, di esprimere tutto quello che solo a parole non può fare, e se una che è capace di parlare per ore su una penna o un fermacarte arriva ad ammettere questo limite, vuol dire che certe cose bisogna per forza vederle.

A questo punto devo parlare di Snoopy, che, se volessi essere cattivo (non nei suoi confronti), potrei definire l’uomo dei record: è l’unico al mondo che sopporta Concetta da due anni, e ha tutte le intenzioni di continuare a farlo! Ovviamente sto scherzando, e spero che lei non se la prenda. Stanno bene insieme e sono contento per loro. All’anagrafe dovrebbe risultare Bracco Salvatore, ma i nomignoli, per lo più al diminutivo (chissà perché…), si sprecano: Salvo, Salvuccio, Braccuccio, e via dicendo, e per pochi anche solo ‘352’, così come io sono ‘112’. Un grande appassionato di fumetti, uno che rivaleggia con me in quanto a montagne di roba da comprare e leggere, uno che quando deve scrivere qualcosa sa farlo bene, e lo dimostra sul suo blog. Ma soprattutto, uno che non si tira mai indietro se può darti una mano. Dal più piccolo favore, come comprare per te cinque albi alla fiera di Lucca, a quelli più grandi, come sacrificare il suo tempo e il suo studio per aiutare una persona alla quale tiene molto, non l’ho mai sentito dire “No, non posso”. Fa piacere vedere che, in un mondo sempre più egoista, c’è qualcuno ancora capace di pensare agli altri.

E veniamo a Perdido. Di Filippo Messina ho parlato già in un altro post, quello scritto come presentazione per il suo fumetto, Chiron, quindi non mi ripeterò. Voglio solo fare una accenno al suo blog. Come dice il sottotitolo, “Perdido pulp blues” non è altro che una raccolta di opinioni e confusioni di un sognatore perduto nel web. A dirlo così sembra un po’ riduttivo, e me ne scuso, ma in effetti quello di Filippo è forse un blog inteso nel suo significato originale, cioè di diario on-line. Ci si possono trovare bellissime pagine di opinioni, commenti, apologie e requisitorie sugli argomenti più vari, dal cinema al fumetto, dalla cronaca alla filosofia, dalla letteratura all’arte. Una tappa da non saltare nelle proprie scorribande sulla rete.

Salvatore Rizzuto può essere molte cose, ma io ne conosco solo due o tre aspetti. Uno è quello di titolare della mia fumetteria di fiducia, “Altroquando”, un luogo un po’ strano, ma in fondo molto confortevole e accogliente. Un altro è quello di appassionato di arte, e il terzo è quello di ‘piccolo’ poeta metropolitano. Di questi ultimi due è testimone il suo blog “Sadeide”, in cui si alternano celebrazioni a quelli che lui chiama ‘I maestri del colore’, e espressioni di una cultura popolare molto affascinante e coinvolgente, di cui lui è una manifestazione perfetta. Poeta nichilista, narratore di storie d’infanzia, pittore di splendidi quadri della Palermo del centro storico, della vera Palermo, di quella Palermo di cui anche chi non è palermitano si innamora. Salvo è tutto questo, e leggere i suoi ritratti è un tuffo in un passato che non dovrebbe essere dimenticato, ma custodito, con una vena di nostalgia e uno spruzzo di ironia.

E per finire, la nona onda. Non so davvero se sia una citazione o una sua creazione, quindi non mi sbilancerò in commenti. Per me, “The ninth wave” è solo il blog di Francesco Gambino, un altro dei fumettari di mia conoscenza. Anticonformista per necessità, rompiscatole per scelta, commesso per forza, artista per professione, ma soprattutto una persona sulla quale si può contare, se si supera lo scoglio della sua pessima memoria. In effetti, se non sono ancora stato ‘eliminato’, in un senso che lui capirà, lo devo proprio a questo piccolo Robin Hood dei fumetti. Anche per lui, il blog è esigenza di far vedere quei lavori, molto interessanti nella loro particolarità, che realizza, e che difficilmente si potrebbero vedere in altre sedi, proprio perché oggi, nel mondo dell’arte (intesa nel senso più ampio), si fa vedere solo chi è già in vista, mentre i nuovi rimangono nell’ombra. È un po’ come in banca: devi avere dei soldi per farti prestare soldi. Per fortuna, adesso c’e internet, e la possibilità di conquistarsi un quadratino di cielo comincia ad essere alla portata di tutti.

Bene, anche se ci sarebbe molto altro da dire, credo di potermi fermare qui. Per tutto il resto, visitate i siti consigliati, e per chi fosse interessato, e ne avesse la possibilità, magari si potrebbe fare un salto alla fumetteria “Altroquando” in via Vittorio Emanuele 143, a Palermo. Occhio, però, ci sono un sacco di esseri strani che si aggirano lì dentro, tra cui il sottoscritto e tutti quelli di cui ho parlato, e potrebbe non essere facile uscirne. Entrare da Altroquando è pericoloso, e io ne so qualcosa.

Gulliver

Il titolo poteva essere “I viaggi di Gulliver”, ma la mia non è stata una dimenticanza, e ne dirò in seguito.
Curioso, adesso che ci penso, ricordo che ho letto questo libro proprio mentre ero in viaggio, il mio primo vero viaggio, con tanto di passaporto e tutto il resto, in Turchia, da poco diplomato e a pochi giorni dall’inizio dell’università. Era il 14 settembre 2001, e non credo serva ricordare di cosa si parlasse in quei giorni e che cosa voleva dire andare in un paese musulmano.

“I viaggi di Gulliver” è un libro meraviglioso, complesso e per nulla banale come alcuni possono pensare. Per chissà quale motivo, l’unica cosa che si ricorda di questo romanzo è Lilliput, e i suoi minuscoli abitanti, con cui Lemuel Gulliver si trova ad aver a che fare nel primo dei suoi viaggi. In realtà, questo è solo uno dei luoghi al limite dell’incredibile eppure estremamente concreti in cui il personaggio si ritrova nelle sue avventure. Saranno tante altre le terre esplorate e i popoli conosciuti, alcuni talmente bizzarri da sconvolgere, altri del tutto sovrapponibili a quelli del nostro mondo reale. Ma dentro al romanzo c’è molto di più del semplice racconto di viaggio. Satira politica, religiosa e sociale, considerazioni di ordine etico, morale ed evoluzionistico, definizioni ideologiche e simboliche. Le ragioni di tutto questo ovviamente si trovano nel periodo storico e nel contesto sociale in cui Jonathan Swift si trova a vivere, quell’Inghilterra a cavallo tra Seicento e Settecento in cui tutto cambia ad un ritmo talmente incalzante da rendere arduo il solo stare al passo. Ogni singola pagina è impregnata di accorgimenti linguistici molto particolari e preziosi. A questo proposito, vorrei far notare un aspetto molto interessante, non perché sia l’unico degno di nota, ma perché non posso certo soffermarmi su tutti, e le questioni di stile mi intrigano molto. Nel paese di Lilliput, in cui Gulliver è il gigante rispetto ai suoi abitanti, tutto è descritto con una precisione matematica impeccabile (misure, volumi, distanze). Nel paese dei giganti, in cui stavolta è lui ad essere un nanetto in mezzo a esseri mastodontici, ogni cosa viene definita in termini di similitudine, a dimostrare l’impossibilità, per chi guarda quegli oggetti e quei luoghi , di quantificarli numericamente, data la loro mole.

Ma c’è dell’altro. Non ho intitolato questo post con il titolo del romanzo per intero perché l’opera di Swift è stata fonte di ispirazione per un altro grande artista, stavolta contemporaneo. Un poeta musicista, un cantautore in puro stile italiano, che della sua passione per la letteratura ha fatto un’etichetta distintiva, e che risponde al nome di Francesco Guccini. L’artista, nel 1983, scrive, per l’abum “Guccini”, una canzone intitolata proprio Gulliver, e che del romanzo ha veramente tutto. In tre strofe è racchiuso tutto il significato de “I viaggi di Gulliver”, ed emblematico è il verso finale con cui si sancisce, una volta di più nel mondo dell’arte, che “La stessa ragione del viaggio è viaggiare”.


Gulliver – 1983 – Francesco Guccini

Nelle lunghe ore d’inattività e di ieri
che solo certa età può regalare,
Lemuel Gulliver tornava coi pensieri
ai tempi in cui correva per il mare.
E sorridendo come sa sorridere soltanto
chi non ha più paura del domani,
parlava coi nipoti, che ascoltavano l’incanto
di spiagge e odori, di giganti e nani,
scienziati ed equipaggi, e di cavalli saggi
riempiendo il cielo inglese di miraggi.

Ma se i desideri sono solo nostalgia,
o malinconia di in numeri altre vite,
nei vecchi amici che incontrava per la via,
in quelle loro anime smarrite,
sentiva la balbuzie intellettuale e l’afasia
di chi gli domandava per capire.
Ma confondendo i viaggi con la loro parodia,
i sogni con l’azione del partire,
di tutte le sue vite vagabondate al sole
restavan vuoti gusci di parole.

Poi dopo ripensando a quell’incedere incalzante
dei viaggi persi nella sua memoria,
intuiva con la mente disattenta del gigante
il senso grossolano della storia.
E nelle precisioni antiche del progetto umano,
o nel mondo suo, illusorio e limitato,
sentiva la crudele solitudine del nano,
sentiva la crudele solitudine del nano,
nell’universo, quasi esagerato,
due facce di medaglia, che gli urlavano in mente
“da tempo e mare, da tempo e mare,
da tempo e mare, da tempo e mare,
da tempo e mare non si impara niente”.

Western ieri... e avantieri

Questo genere cinematografico mi è sempre piaciuto, fin da piccolo, forse contagiato da mio padre che non ne perdeva uno quando li davano in TV. Qualche giorno fa ne ho rivisto uno un po’ sui generis, che non vedevo da qualche anno, ed è questo che mi ha fatto venire voglia di parlarne. Credo che quelli ai quali questo genere non piace abbiano in mente un tipo di western, e non il western. A cosa mi riferisco? Cercherò di spiegarmi. Credo che a chiunque senta nominare questa parola venga in mente l’immagine di chi ha impersonato il genere per molti anni, vale a dire John Wayne. Da “El Dorado” a “Sentieri selvaggi”, passando per “Un dollaro d’onore”, “Rio Lobo”, “Quel maledetto colpo al Rio Grande Express” e altre decine di titoli che potrei ricordare, per anni ‘il Duca’ è stato il western: l’eroe coraggioso, nobile, romantico, risoluto. Quello che sa sparare meglio di ogni altro ma che sa anche tenere le pistole nella fondina, a meno che non sia necessario estrarle. Insomma, l’eroe buono, tutto d’un pezzo, sempre dalla parte della giustizia. Che aveva di fronte sempre un cattivo, o meglio una banda di cattivi, ladri di bestiame, rapinatori di banche e simili, che invariabilmente finivano al fresco o morti. Questi film li ho visti praticamente tutti, e sarei ripetitivo nel citare altri grandi protagonisti di questo tipo, come Gregory Peck, Robert Mitchum o Burt Lancaster.



Poi qualcuno ha un’idea geniale, e le cose cambiano. Questo qualcuno si chiama Sergio Leone, e inventa una cosa chiamata ‘Spaghetti western’, che non è solo un modo strano per indicare le produzioni italiane. Al posto di quei volti, decisi ma sereni, di cui ho detto sopra, compaiono volti tormentati, adombrati, spesso francamente oscuri. Volti come quelli di Lee Van Cleef, Gian Maria Volontà e soprattutto Clint Eastwood. È lui a diventare il nuovo volto dell’eroe del west, ma è un eroe strano. In genere, gli interessano solo i soldi, è cinico, spietato, vendicativo, opportunista. Non importa se chi gli si para davanti è uno sceriffo o un criminale: ci sono pallottole a sufficienza per entrambi. Ecco quindi che spuntano film come la trilogia del dollaro, vale a dire “Per un pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più” e “Il buono, il brutto, il cattivo”, che in originale doveva essere “Dollari a palate” (ecco perché il nome della trilogia). Dopo questi film, l’incantesimo che ha legato attore e regista si rompe: Leone dice che Eastwood non sarebbe stato mai nessuno senza di lui, Eastwood dice che Leone non avrebbe mai fatto quei film senza di lui, e le loro strade si separano. Clint Eastwood si cimenta con la regia, e i risultati sono “Lo straniero senza nome”, “Impiccalo più in alto”, “Il texano dagli occhi di ghiaccio”, ottimi film dove ormai domina questa nuova figura di antieroe, molto più innovativa e sfaccettata dei classici Wayne e Peck, che pur mantenendo il loro fascino risultano un po’ stereotipati e piatti.

Espressione di questo passaggio è proprio quel film di cui dicevo all’inizio, intitolato “Il mio nome è Nessuno”, in cui recitano faccia a faccia Henry Fonda e Terence Hill, incarnando i due modi di essere del west. Uno è il vecchio eroe all’antica, stanco, che vive in un mondo violento, in un west immenso, sconfinato, deserto, in cui non si incontra mai due volte la stessa persona, e che non ha più voglia di fare l’eore. L’altro è Nessuno, il giovane spensierato e allegro, che vive alla giornata, che cerca avventure, che va in giro acchiappando mosche, uno per cui il west è piccolo, affollato, dove ci si incontra continuamente. Uno che da piccolo giocava a fare il suo eroe preferito: quel Jack Beauregard che adesso è troppo stanco per affrontare i cattivi. Le avventure, le sparatorie, le cavalcate e i saloon sono solo lo sfondo di questo film, così come i momenti comici e quelli tragici. I veri protagonisti della storia sono gli sguardi dei due personaggi faccia a faccia, quando il vecchio west cede il passo a quello nuovo. Ma quest’ultimo non è prepotente e arrogante, anzi: guarda con rispetto e con nostalgia a quel vecchio che se ne va, e non vuole che lo faccia in sordina, nell’ombra, ma cerca una chiusura trionfale per il suo mito. E concludo riportando un passo del dialogo più bello del film, che riassume in poche battute tutto quello che ho detto.

[Jack]: Perché vuoi farmi diventare un eroe?
[Nessuno]: Ma lo sei già. Ti manca solo il gran finale, ti manca l’impresa da leggenda!
[J]: Quello che non riesco a capire è perché a te importa tanto.
[N]: Un uomo che è un uomo deve credere in qualcosa.
[J]: Nella vita ho incontrato di tutto: ladri, assassini, preti e preti spretati, ricattatori, ruffiani, persino qualche uomo onesto. Ma uomini soltanto, mai.
[N]: Proprio di quelli parlo. Non si incontrano quasi mai, ma sono gli unici che contano.

Non so a voi, ma a me piacerebbe essere uno di questi. Uno di quei Nessuno, uno di quelli che, invece di evitare un guaio, se il guaio non c’è se l’inventano, per poi correre via e lasciare il merito a un altro, così possono continuare ad essere Nessuno. Sarebbe davvero bello.

lunedì 10 dicembre 2007

Chiron

Non è la prima volta che mi capita di scrivere sull’opera di qualcuno che conosco personalmente, e devo dire che è una sensazione particolare. Scrivere di qualcuno che spesso non sai neanche che faccia abbia ti concede un certo grado di rilassatezza, soprattutto se si tratta di qualcuno che è ragionevole pensare non leggerà mai quello che scrivi. Ma scrivere di un autore che conosco personalmente, con cui ho parlato spesso degli argomenti più vari, e soprattutto che so leggerà quello che scrivo, mi mette di fronte all’imperativo di non deludere le aspettative.

Filippo Messina è un amico. Non uno di quelli con cui hai fatto il liceo insieme, con il quale uscivi in motorino a cercare ragazze o che ti ha tenuto la fronte la prima volta che ti sei ubriacato. Lo conosco da poco, diciamo da circa cinque anni, cioè da quando frequento assiduamente il posto dove lavora (che è anche, ma non solo, la mia fumetteria di fiducia). Ma lo conosco da un tempo sufficiente per sapere che è una di quelle persone che valgono. È, come si dice, una bella testa, uno che apprezza il valore della cultura, che ha la mente aperta, e uno con cui si può parlare. Di più, con cui è piacevole parlare. Ricordo i pomeriggi passati a scambiarci opinioni sul mondo dei fumetti, del cinema, dell’editoria, della letteratura. E sapere che tiene alla mia opinione sul suo primo lavoro mi lusinga. Quando mi ha chiesto di scrivere di Chiron mi ha detto: “Se non sapessi che scrivi bene, non te l’avrei chiesto”. Quindi non posso assolutamente fallire. Ho in mente molte cose, di quest’opera, di cui voglio parlare, e spero di riuscire a farlo nel modo migliore. Detto questo…

Il Chiron Center nasce come un ospedale per la cura degli individui metaumani e dei cittadini comuni coinvolti nei loro scontri. Ma se i medici e tutto il personale che vi lavora, almeno in apparenza, sono animati dalle migliori intenzioni, non è sempre questo il messaggio che passa agli occhi delle persone comuni. In effetti, più di un mistero si nasconde nel dedalo di corridoi affollati del Chiron, tra specializzandi alle prime armi e infermiere provocanti. E tra un superessere impazzito e una riunione segreta, personaggi sempre più interessanti e complessi fanno la loro comparsa, intrecciando sottotrame fitte e intricate. Fino a che non si scopre dove sia il grande assente di tutta la storia, nominato da tutti e da nessuno trovato, perché in realtà il dottor Asgard è…

Mi dispiace, ho già detto troppo sulla storia, chi volesse saperlo vada a comprare l’albo. Il mio giudizio sul suo lavoro Filippo lo conosce già, perché gliene ho parlato appena l’ho letto, ma mi fa piacere riparlarne qui, anche per condividerlo con quanti leggono queste pagine. Non c’è molto da dire, in effetti: Filippo sa scrivere. E sa anche disegnare (contrariamente a quanto lui stesso pensi). Lo dimostra appieno con un prodotto che, anche se a molti sembra più facile, non lo è per niente. In una prosa, in un romanzo, devi preoccuparti solo delle parole, mentre in un fumetto bisogna armonizzare le parole scritte e quelle disegnate, e non è facile. Con un occhio che guarda alle grandi testate americane, e un altro che si rivolge (per sua stessa ammissione) al fumetto ‘stile underground’, Filippo ci guida in un caleidoscopio di citazioni, distorte e parodiate in chiave comica, di quel mondo di supereroi classici che in qualche modo un po’ tutti conosciamo, chi più chi meno. E forse (ma badate bene, questa è solo una mia elucubrazione), dietro quei piccoli particolari, quei dettagli, che solo un occhio attento riesce a cogliere, si nasconde una vena di affetto e nostalgia per un mondo amato da ragazzino, seguito in tutte le sue forme per molti anni, e purtroppo solo negli ultimi tempi messo un po’ da parte, per le continue delusioni che propone ogni mese. Nel complesso, visto lo schifo che si vende a fior di euro sugli scaffali delle fumetterie, quello di Filippo Messina è un lavoro degno di essere acquistato e letto con passione e interesse. Sperando che il seguito non si faccia attendere troppo.

Chiron numero 1 “Mali estremi” è in vendita presso la fumetteria “Altroquando”, in via Vittorio Emanuele 143, a Palermo.

Per quanti volevano solo farsi un’opinione sull’opera, può bastare tutto quello che ho detto fino a qui, ma sul mio blog mi piace divagare, tanto chi sta dall’altra parte dello schermo è padronissimo di chiudere la pagina con un click, non appena si annoia, per cui spazio alle riflessioni (personali e non confermate, ci tengo a dirlo). Sono molti gli spunti, che l’autore ci offre, su cui riflette, alcuni di certo già presenti in altre produzioni del vasto mondo dei fumetti, altre più innovative. Ma mi vorrei soffermare su tre in particolare. Il primo è il giornalismo d’assalto, impersonato dall’eccentrica Meg Sucameli, arrivista, cinica e senza il minimo scrupolo, disposta a tutto per alzare i suoi indici d’ascolto. Lei sostiene che l’informazione deve avere la precedenza su ogni tipo di segreto, anche quando questo significa esporre degli individui a rischi anche mortali. E su questo argomento c’è un magnifico scontro verbale con al dottoressa Okde, che invece la accusa di condurre una trasmissione che specula sui dolori e le sofferenze della gente, causando solo danni, a volte irreparabili. Difficile schierarsi su questo punto, visto che entrambe le opinioni possono essere appoggiate o criticate. E non mancano certo i riferimenti al mondo reale: traffici loschi lasciati nell’ombra da un’informazione venduta da un lato, sciacallaggio e scempio della sofferenza dall’altro. Se ne può parlare.

Un altro punto fondamentale, ripreso forse da fumetti supereroistici di più vecchia data, è quello dell’odio e del disprezzo sociale, con conseguente proposta di restrizione legislativa delle attività supereroistiche e di quelle a queste ultime collegate (per fortuna che a scrivere non è Mark Millar, altrimenti una maxisaga su questo argomento non ce la toglieva nessuno!). In questo caso, bersaglio di questi sentimenti sono proprio i medici del Chiron Center, che curano allo stesso modo supereroi e supercriminali. E questo mi porta al terzo aspetto, che tengo particolarmente a sottolineare, perché è anche il mio campo, ossia la medicina. Devo intanto fare i complimenti all’amico Filippo, che sicuramente deve essersi documentato, perché quando si parla di qualcosa di specifico come nozioni mediche, è facile commettere errori, e lui non ne ha commessi. Vorrei parlare di un aspetto della medicina che, forse, nelle intenzioni dell’autore, era del tutto marginale, ma che ritengo importante. Uno dei motivi per cui i medici del Chiron si attirano l’odio della gente è che, dopo aver curato un criminale, questo si è reso responsabile di una strage in cui hanno perso la vita persone innocenti. Superpoteri a parte, è una situazione del tutto compatibile con la nostra realtà. Io so cosa vuol dire curare un criminale, e vi assicuro che leggere sul frontespizio di una cartella clinica, alla voce ‘impiego’, le parole ‘ex detenuto’ non è per nulla facile. Perché ti fa sorgere una serie di dubbi che sei costretto a scacciare rapidamente, se non vuoi diventare responsabile di errori gravissimi. Nel momento in cui varcano la porta dell’ospedale, non importa che siano ladri, assassini, stupratori, pedofili, spacciatori, tutti smettono di essere quello che sono e diventano soltanto pazienti. Se non si riesce a fare questa distinzione tra dentro e fuori, è meglio prendere una settimana di ferie, e sperare che la volta successiva vada meglio. Perché ognuno di noi può avere tutte le opinioni che vuole, ma nessuno può esprimere giudizi, perché nessuno ne è all’altezza.

“Molti di quelli che vivono meritano la morte e molti di quelli che muoiono la vita. Tu sei in grado di valutare, Frodo? Non essere troppo ansioso di elargire morte e giudizi. Anche i più saggi non conoscono tutti gli esiti. Il mio cuore mi dice che Gollum ha ancora una parte da recitare, nel bene o nel male, prima che la storia finisca”

domenica 2 dicembre 2007

Il rito della primavera

Su “La saga di Swamp thing” si potrebbero scrivere decine, forse centinaia di pagine, e si troverebbe sempre qualcosa di cui parlare. Non mi riconosco all’altezza del compito. Per questo motivo, mi limiterò a parlare di una singola storia, “Il rito della primavera”, in originale “Rite of spring – The saga of the Swamp thing n° 34, marzo 1985”. L’ho riletta da poco, in realtà la rileggo spesso, e devo dire che, a mio modesto parere, è la più bella, la più intensa e la più poetica di tutto il ciclo scritto da Alan Moore per questo personaggio. Con questo non voglio dire che tutte le altre storie siano da meno, ma, in ogni caso, si snodano tutte in continuità, in cicli che abbracciano tre, quattro, anche sei numeri. "Rito di primavera" invece può essere letta indipendentemente da tutto il resto, anche senza sapere minimamente chi siano i personaggi che vi compaiono, quali siano le loro storie, che cosa li ha portati fin lì. Tutto quello che è necessario sapere è contenuto nelle ventidue tavole della storia. Credo che questa sia la classica storia che chiunque avrebbe voluto scrivere, e l’unica fortuna, almeno per me, è il fatto che ad esserci riuscito sia Alan Moore, perché se l’avesse fatto l’ultimo arrivato che ha da poco preso una penna in mano, la mia frustrazione sarebbe stata tale da impedirmi di scrivere anche solo due righe per il resto della mia vita. Moore è uno che le parole le sa usare. E soprattutto sa come fonderle ai disegni dei disegnatori, con i quali instaura una sintonia che rasenta la simbiosi. Basta leggere una qualunque delle sue opere per diventare partecipi “…dell’accurato matrimonio alchemico di parole e immagini che Alan Moore praticava ogni giorno con amore e dedizione” (parole di Jamie Delano, nell’introduzione al volume in cui è compresa la storia in questione).
E dire che l’argomento di cui si parla non è dei più agevoli: l’amore. Come si fa a scrivere, o a disegnare, l’amore? Si può scrivere di un amore, di una storia d’amore, di due innamorati, ma scrivere l’amore è davvero possibile? Disegnarlo è davvero possibile? A quanto pare, sì. E se ci aggiungessi che non stiamo parlando di due persone ‘normali’? Uno è praticamente una pianta, una manifestazione della vita vegetale, della natura, della palude da cui ha avuto origine. Lei, invece, non può fare a meno di essere donna, anche se è amica e vedova. E anche se dice che le può bastare solo un bacio che sa di cedro, in realtà non può essere così. Lui lo capisce, e provvede. Come può una pianta fare sesso? Per Alan Moore basta un germoglio, che viene fatto mangiare al partner. Sembra riduttivo, detto così, vero? Volevo che lo fosse. Bisogna leggere la storia per capire il senso vero della comunione di due spiriti rappresentato in immagini. Lei mangia il frutto, e all’improvviso sente quello che sente lui, vede quello che vede lui, percepisce ogni messaggio che arriva anche a lui. Non sono più due individui, per quanto legati l’uno all’altro, sono una cosa sola. E finalmente lei capisce, riesce a comprendere che cosa è realmente il mondo, la natura, l’universo, il tempo. Tutto si spiega ai suoi occhi, tutto quello che prima le era celato.

…Nel punto in cui ci tocchiamo, le fibre si fondono e si intrecciano. Non sono più certa di dove termino io… di dove inizia lui…[…] La corteccia mi riveste i fianchi. Il muschio si arrampica sul mio dorso ad abbracciarmi le spalle… Noi… siamo… una creatura sola.

Nel vedere quelle gocce imperlare la fronte di lei, quella lieve smorfia di piacere che le attraversa le labbra, quelle ciocche di capelli scombinati, quell’accenno di sorriso quando lo guarda e tutto è finito, anche chi legge viene travolto dalle stesse emozioni.

Ripesco ancora una volta dall’introduzione, non perché non abbia già detto abbastanza, ma perché forse chi non conosce me, ma conosce Delano, si fiderà delle sue parole: “Ma nei fumetti nulla è impossibile. Viene dimostrato in questa storia. Le parole sono congiunte alle immagini in una perfetta complementarietà. L’amore è congiunto all’orrore; l’animale al vegetale; il maschio alla femmina; il naturale al soprannaturale. Per alcune brevi pagine ci viene offerto un seducente scorcio di come potrebbe essere se fossimo abbastanza grandi da renderci conto di tutte le possibilità delle nostre miopi esistenze, se potessimo trovare il modo di abbracciare veramente il mistero ed ‘amare il diverso’. Ma questa è un’altra storia – un’altra visione pericolosa”.
Esprimere le emozioni a parole non è facile, ma se c’è una storia a fumetti che consiglierei a chiunque di leggere, è certamente questa.

Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte

Era un sabato mattina di fine settembre, stavo da poco nella nuova casa, e conoscevo poco il quartiere, quindi le mie uscite giornaliere avevano come scopo una timida esplorazione del territorio circostante. In questo modo finii a camminare a piazza Marina, e scoprii che, lungo la cancellata della villa Garibaldi, le mattine di sabato e domenica si tiene una sorta di mercatino dell’usato, in cui si può trovare ogni genere di cianfrusaglia, a volte anche di un certo valore. Così, dischi in vinile sono mischiati a canne da pesca, pesi da bilancia a cinturini di orologi, vecchie foto e cartoline a libri di ogni tipo. Proprio tra questi mi capitò di notarne uno in particolare, che mi colpì perché fa parte di una collana di cui ho altri volumi, e che è un’edizione piuttosto importante, non un volgare tascabile da due soldi, o un’edizione da edicola. Chiesi quanto costava, e appena mi fu risposto ‘tre euro’, dopo una rapida occhiata al risvolto, lo presi. Ecco la storia di questo mio libro.

Sull’autismo si è scritto tanto, sia per la letteratura che per il cinema. Senza sforzare troppo la memoria, mi vengono in mente film come “Rainman” o “Codice Mercury”. Quando si parla di malattie mentali, e soprattutto quando si cerca di rappresentarle, requisito fondamentale dovrebbe essere la capacità di entrare dentro la mente malata, di ‘ragionare’ come farebbe lei, e di agire di conseguenza. Non è mai facile, e non sempre ci si riesce. Mark Haddon c’è riuscito.

Christopher Boone è il protagonista de “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte”, ha quindici anni e la sindrome di Asperger, una forma di autismo. Sì, perché, contrariamente a quanto pensano in molti, non esiste l’autismo, ma gli autismi, o sindromi autistiche. Sarebbe per me troppo facile cadere nella trappola di dilungarmi a parlare su questo argomento, ma terrò gli occhi aperti e non ci cadrò. Parlerò solo del personaggio. Ma una considerazione la devo fare. Nelle sindromi autistiche, il normale filtro tra il soggetto e il mondo che lo circonda, che tutti noi abbiamo, si assottiglia, fino al punto di annullarsi. Il risultato è che non è più possibile schermare le emozioni e i messaggi sensoriali che arrivano dall’esterno. Ecco perché Christopher detesta essere toccato, si confonde spesso, urla quando si confonde, cantilena, odia il giallo e il marrone, geme, non mangia se cibi diversi vengono a contatto tra loro, può sembrare maleducato, odia la Francia, si arrabbia se qualcuno sposta i mobili. Qualunque cosa che non può essere compresa, qualunque cosa che distorce il monotono schema della quotidianità, qualunque cosa che invia un segnale perturbante che non può essere filtrato, viene percepita come fastidio, o peggio ancora come minaccia, e l’unica salvezza è fuggire nella propria mente, isolarsi, attraverso rumori assordanti, angoli bui, silenzio. Ma Christopher è molto intelligente. Adora la matematica e l’astronomia, ed è appassionato di Sherlock Holmes. Proprio per questo, quando scopre che il cane della sua vicina di casa è morto trafitto da un forcone, quello che pensa è che sia stato ucciso, e che scoprire il colpevole sia un’indagine per un bravo allievo di Holmes come lui. E comincia a indagare. Inspiegabilmente, però, incontra l’ostilità degli altri vicini alle sue domande, e soprattutto l’ira del padre, che gli vieta categoricamente di continuare a ‘giocare a fare il poliziotto’.

Il libro è tutto narrato in prima persona, e considerazioni personali si alternano alle descrizioni delle vicende reali. Scrivendo il suo libro, e riferendosi a quelli del suo investigatore preferito, Christopher si ritrova a indagare su ben altri misteri, oltre all’assassinio del cane: come è morta sua madre? Perché suo padre non vuole che faccia domande ai vicini? Le risposte, sia lui che noi lettori, le avremo solo percorrendo, passo dopo passo, quello che è a tutti gli effetti un viaggio iniziatico di un bambino che, pur afflitto da un insormontabile disagio nel comunicare col mondo esterno, supera queste difficoltà, si tuffa nell’universo che lo circonda, e, grazie all’esperienza a poco a poco acquisita, cresce.
Adatto a chi si immedesima completamente nel personaggio di cui sta leggendo le vicende, “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” è un libro da leggere tutto d’un fiato, che ad alcuni farà tanta tenerezza, fino a far scendere una lacrima, per altri risulterà molto, molto divertente.

giovedì 29 novembre 2007

The Maxx - Si fa presto a dire 'Supereroi'

È capitato spesso di parlarne con degli amici che, oltre ad essere colpevoli della inconsistenza delle mie finanze, sono anche appassionati di fumetti (sarà per questo che li vendono. Quasi tutti a me, tra l’altro…). Che cosa rimane, oggi, dei cari, buoni, vecchi supereroi? In effetti, siamo un po’ tutti costretti ad assistere ad un costante declino delle produzioni di questi personaggi, sempre più invischiati in maxi-saghe complicatissime, in cui decine e decine di personaggi, sia ‘buoni’ che ‘cattivi’, fanno la loro comparsa, spesso solo per una manciata di vignette, quasi che il filo guida di tutto sia un banale “più siamo, meglio stiamo”. Anche solo da un punto di vista pratico e materiale, queste operazioni non funzionano: i lettori occasionali non possono appassionarsi ad una storia che non capiscono per mancanza di un adeguato bagaglio di nozioni, i collezionisti sono costretti ad acquistare decine di albi in più per avere la saga completa, i venditori devono barcamenarsi tra titoli, sottotitoli e speciali talvolta di non facile individuazione, anche per gli addetti ai lavori. Come esempi di questo discorso iniziale (e per fare onore a quella par condicio che qualcuno vorrebbe abolita perché “illiberale”!) cito le ultime nate nelle due più grosse case editrici americane: “Guerra civile” per la Marvel, e “Crisi infinita” per la DC. Entrambe esprimono perfettamente quanto ho detto finora. Anzi, ad essere sincero, forse delude più la seconda che la prima. Se infatti Guerra civile era contraddistinta fin dall’inizio dalla pochezza della storia e da una serie di incongruenze logiche, culminate in un finale su cui non voglio fare commenti, Crisi infinita aveva tutte le premesse per svilupparsi in modo interessante. Purtroppo però si è persa in una miriade di sottotrame a volte oscure, situazioni complicate e personaggi a mai finire, tanto che anche il lettore più ostinato non poteva non desiderare la fine dell’albo per riposare gli occhi e la mente.

Che cosa salvare, quindi, dei supereroi di oggi? Chi far emergere dal mucchio, chi consigliare agli amici o ai neofiti? Indubbiamente, quelle due o tre produzioni che guardano alla figura del supereroe in modo veramente innovativo e dinamico. Una di queste è certamente “The Maxx”, di Sam Kieth.
Come lui stesso ebbe a scrivere nel 2003, in occasione della raccolta in volume delle prime storie, a dieci anni dalla loro pubblicazione, “Alcuni lo comprarono durante il boom della Image e furono delusi o sollevati nello scoprire che Maxx aveva ben poco a che fare con gli albi di supereroi”. Un po’ di storia.


Maxx è un barbone senza tetto, che vive in uno scatolone di cartone, e che gode spesso dell’aiuto e forse anche dell’amicizia di Julie, assistente sociale, eccentrica e piena di complessi. Ma, da un’altra parte, Maxx è un supereroe, uno di quelli veri, che salva la sua bella, Julie, cattura i criminali e vive avventure straordinarie. Fin qui tutto già visto (scatolone a parte). Solo che questo posto, l’Outback, è nella sua mente. Ed ecco che, con un semplice espediente, Sam Kieth ci conduce per mano in un caleidoscopio onirico, psicologico, allucinato, psichedelico, fantastico. Un caleidoscopio creato dalle fantastiche immagini che si armonizzano perfettamente ai dialoghi e alla storia in generale.

Ma se si riesce a non perdere la lucidità, a non farsi trascinare da quei tratti pastosi, a guardare alla vicenda nel suo insieme, si può scorgere il tema centrale della storia: la crescita. O meglio, la paura della crescita. In fondo, i personaggi non fanno altro che compiangersi, parlare da soli ad alta voce, pensare che tutto quello che accade loro sia molto importante. Stronzate adolescenziali (parole di Sam Kieth). Ma utili a farci capire che tutto quello che accade in quegli anni è davvero importante, e per questo i personaggi rimangono imprigionati in una eterna adolescenza. Così, Julie, piuttosto che dedicarsi al suo lavoro e ai problemi concreti della vita, preferisce idealizzare Maxx trasformandolo in un cucciolo bisognoso d’affetto, un principe azzurro, un fidanzato, tutto in una sola persona. Maxx, dal canto suo, non fa altro che rimuginare sui suoi deliri e allucinazioni di avventure fantastiche e principesse/padroncine da salvare (Julie), piuttosto che volgere lo sguardo alla realtà che lo circonda. E a chi è affidato il compito di mostrare a Maxx la dura realtà, a distoglierlo dai suoi sogni? A mr. Gone, guarda caso il cattivo della situazione, l’arcinemico, la nemesi di Maxx. Perché forse sarebbe più bello poter vivere per sempre in un mondo di sogni, di desideri esauditi, di illusioni. Quindi chi fa il cattivo cerca di riportarci alla realtà. Come ho letto da qualche parte parecchio tempo fa, “Il nostro mondo vive di sogni. E sta morendo di realtà”.

Purtroppo però, crescere non è solo un dovere, è anche un passo importante e necessario. Chi si trova a confrontarsi da poco con le responsabilità di ‘essere grande’, forse preferirebbe tornare indietro di qualche anno, quando gli unici pensieri erano giocare a pallone e guardare i cartoni. Però quello che si guadagna a scoprire i primi capelli bianchi, quando ci si guarda allo specchio, è la maturità per apprezzare cose come il vero amore o la vera amicizia, per prendere decisioni importanti e a volte gravi, per affrontare le conseguenze di queste decisioni. Onestamente, credo che pochi di quelli che lo dicono vorrebbero veramente tornare indietro.

lunedì 26 novembre 2007

Io sono di legno

Luglio faceva sentire grandemente tutta la sua potenza di mese estivo, e io ero chino sui libri a studiare, mentre le polvere si accumulava sulle mie mensole, sui miei fumetti e sui miei libri, sprofondando la casa in una trasandatezza che non aveva mai conosciuto. Ma finalmente venne il 13, sostenni l’esame, e andò bene. A prescindere dal risultato, mi ero ripromesso che durante le vacanze estive (farei meglio a chiamarle ferie) avrei recuperato le letture arretrate, e per questo il mio bagaglio, al ritorno verso Cefalù, consisteva esclusivamente in vestiti sporchi, fumetti e libri.
“Io sono di legno” faceva parte del gruppo di questi ultimi. Comprato insieme ad altri due libri, più che altro perché il prezzo coincideva con quello che mi rimaneva da spendere, l’avevo mentalmente etichettato come un romanzetto buono per passare il tempo, senza troppe pretese. Mi sono dovuto ricredere. L’ho cominciato per noia, in un pomeriggio talmente afoso che anche prendere la macchina per andare a mare era una scocciatura. Senza che me ne rendessi conto, attorno a me si era fatto il crepuscolo, i miei occhi cominciavano a stancarsi per il buio imminente, ed ero arrivato a metà libro. Tutto attorno a me era cambiato: animaletti che si muovevano per la campagna, insetti che martoriavano l’aria con il loro canto stridulo, perfino l’hibiscus giallo che si vede dal terrazzino in cui ero seduto aveva deciso che era arrivata l’ora di socchiudere i suoi fiori. E io avevo ancora appiccicate sulle labbra quelle parole scritte che non volevano saperne di staccarsi. Mi è bastata la sera per finirlo, neanche dodici ore per centoquaranta pagine. Chissà se Giulia Carcasi (non chiedetemi dove sta l’accento, perché non ne ho la minima idea) è consapevole che c’è un suo lettore così entusiasta del suo romanzo. Giulia Carcasi, classe 1984, studentessa romana di medicina: una collega, una coetanea (due anni meno di me), eppure lei ce l’ha fatta. Ha scritto un romanzo, e l’hanno pubblicato, ne ha scritto un altro, e l’hanno pubblicato. Meritatamente, devo ammettere, con una punta di invidia. E non uno qualunque, ma Giangiacomo Feltrinelli, o chi propaga il di lui nome. Vorrà pur dire qualcosa, no?

“Io sono di legno” è un dialogo, o meglio, è due monologhi che procedono paralleli, e tuttavia si parlano uno all’altro. Il primo è Giulia: madre, x, moglie, medico, amica, sorella, figlia. L’ordine non è casuale, è lei stessa che lo ripercorre, raccontando la sua vita in una famiglia con una madre che non vuole liti, con una sorella che non vuole scandali, con una identità ancora da rivelarsi. L’amica è una suora peruviana, che di Dio sa poco, dell’amore ancora meno, ma del secondo è molto curiosa, del primo per nulla. Giulia percorre i viali di un lavoro misogino, in cui una donna deve nascondere di esserlo per dimostrare il suo valore, di un matrimonio insidioso, con il suo primario, di una maternità desiderata, spasimata, sofferta e solo molto tardi raggiunta. Quella ‘x’ non è casuale, c’è un’altra parola nell’elenco, ma non l’ho inserita apposta: deve essere Giulia a raccontare quella parola che la riguarda, con la sua voce, a chi vorrà leggere, non io con la mia.
Il secondo monologo, la seconda voce, è Mia. Figlia di Giulia, piena crisi adolescenziale, non le si può parlare, non le si può chiedere niente, risponderà ringhiando, mordendo, schizzando veleno. Mia, incazzata col mondo, con sua madre, con i ragazzi. Mia, cinica, anaffettiva, egoista come il suo nome, che le ha messo sua madre, che non le piace, che vorrebbe cambiare, anche se non lo ammetterà mai che vorrebbe essere ‘Tua’. Mia, che scrive di sé e della sua vita nel diario, e che è la causa dello scrivere di Giulia. Giulia scrive a Mia, perché lei non le parla. Legge il suo diario, perché lei non le parla. Le confida un segreto, sperando che non ne parli. Perché Mia ha i piedi strani, quei passi spericolati non tornano nell’equazione della sua famiglia. Quei passi vengono da qualcos’altro.
Senza mezzi termini, senza compromessi, senza moralismi, un romanzo che lascia molto poco spazio ai giri di parole, alle sfumature, alle interpretazioni. Un romanzo intenso, un romanzo nudo, che non ha bisogno di vestirsi, sta bene così com’è, come un albero non ha bisogno di coperte. Perché non solo Giulia, non solo Mia, ma anche il loro romanzo è di legno.

La verità è bicolore.
Non ci stanno tinte di mezzo, non ci stanno i compromessi del grigio, il carnevale del blu, del rosso e del giallo.
L’ho imparato quando ho messo a stendere le parole nere sul foglio bianco e la verità le ha asciugate.

Fathom

Mi è necessaria una precisazione, prima di parlare di quest’opera a fumetti. Necessaria perché non voglio rischiare un’accusa di plagio, necessaria perché rappresenta un minimo, anche se a mio modo di vedere giusto, sfogo. Necessaria perché tengo all’opinione di chi legge quello che scrivo in questo spazio.
Qualche anno fa iniziai una collaborazione con un sito (del quale preferisco non fare il nome), che partiva da una mia idea. Nelle mie allora frequenti scorribande tra le maglie della rete, mi ero imbattuto in questo sito, che si occupava principalmente di sovrannaturale, e nel quale pubblicavano i loro articoli anche persone esterne allo staff. Contattai il webmaster, e gli esposi la mia idea di una rubrica che parlasse di fumetti di argomento affine. Ne fu entusiasta, e molto disponibile, in un primo tempo, tanto che nel giro di qualche mese vidi pubblicati una presentazione, una pubblicità di vetrina e cinque articoli (tra l’altro, uno di questi mi costò molto impegno e fatica nella raccolta delle fonti bibliografiche e nella loro sintesi in circa quaranta pagine word). Purtroppo però, quando ebbi pronto un sesto articolo, la risposta al mio invio fu che adesso il sito aveva fondato una associazione privata, che solo gli iscritti potevano pubblicare, e che l’iscrizione comportava una spesa di quindici euro, un abbonamento alla rivista pubblicata dall’associazione, e una presenza annuale alle riunioni. Per questi motivi, decisi unilateralmente di non avere più nessun contatto con queste persone. Non ho idea di che fine abbia fatto il sito, ma i miei articoli vi erano pubblicati, e anche se comparivano con il mio nome, qualcuno potrebbe pensare ad un omonimo. Per questo, ci tengo a precisare che tutto quello che si legge su questo blog è frutto esclusivo del mio lavoro, della mia fantasia, della mia pazzia, e forse di qualcos’altro che mi porto appresso, ma certamente non del furto del lavoro altrui. E a scanso di equivoci, dato che mi ripropongo di recuperare questo materiale per successivi post, vi dico che gli articoli pubblicati riguardavano: “Fathom”, “The Coven”, “Soul saga”, “Jonathan Steele” e “Neon Genesis Evangelion”. Di questi, il primo lo leggerete, con qualche piccola modifica, qui di seguito, il secondo e il terzo sono di prossima pubblicazione, gli ultimi due non credo che li utilizzerò mai. Il sesto invio, di cui parlavo, è “Arrowsmith”, del quale avete già letto in questa sede. A questo punto, non mi resta che augurarvi…Buona immersione!

Fathom
Ad ogni essere umano è capitato almeno una volta di guardare in cielo e porsi la fatidica domanda: ‘Ma siamo davvero soli nell'universo?’. Alla ricerca di un'altra forma di vita intelligente (ponendo come prima quella umana, cosa tutt’altro che scontata) si sono dedicati molti uomini per molte generazioni. Chiunque di quelli che hanno scrutato l’universo ha sperato, almeno per un istante, di vedere a un certo punto materializzarsi davanti ai suoi occhi una creatura aliena, a bordo della sua astronave. La letteratura, la cinematografia e l'arte in generale hanno sin dalle loro prime forme dato sfogo e voce a questa curiosità connaturata nell'uomo, molto spesso esasperandola e facendo passare per banali eventi e situazioni che in realtà non lo sono. Una delle più grosse banalità, che solo negli ultimi anni è stata finalmente abbandonata, era quella che gli alieni venissero da Marte, da cui il termine marziani.

Qualche anno fa ho avuto occasione di leggere qualcosa di veramente interessante riguardo a questa tematica: gli alieni. Si diceva di come sia banale la concezione che gli alieni vengano da Marte. In “Fathom”, lo sceneggiatore e disegnatore Michael Turner porta l'attenzione su questo concetto e lo amplifica al punto da mostrare una banalità ancor più grande, e tuttavia più celata: perché gli alieni devono venire per forza dallo spazio? Con una sapiente operazione letteraria, l'autore porta a riflettere sul significato intrinseco della parola alieno, che etimologicamente deriva dal latino alius - alia - aliud, cioè ‘altro, estraneo, diverso’. Diverso da cosa? Ma naturalmente dalla natura intrinseca dell'osservatore, che è inevitabilmente un rappresentante del genere umano.
Ma torniamo alla domanda: perché per forza dallo spazio? Utile risulta, per spiegare il rivoluzionario punto di vista di Turner, citare le battute iniziali della sua opera:

“Terra. Strano nome per un pianeta la cui superficie è coperta per più di due terzi da oceani, laghi e fiumi. “Acqua” sarebbe stato più corretto. Le montagne più alte... le depressioni più profonde... la maggior parte delle specie di vita... dei pericoli... e dei misteri... sono tutti sotto la superficie. L’uomo ha sempre avuto foga di guardare le stelle per trovare risposte... o una guida... o il vero motivo per cui siamo su questo pianeta... e ha dimenticato di guardare nel luogo più ovvio... sotto i suoi piedi. Nel mondo sotterraneo.”


Già questo basta a far intuire al lettore che aprendo il primo albo di Fathom si trova alle prese con un’opera rivoluzionaria e innovativa. Ma, proprio per quella sinergia tra parole e disegni che si deve realizzare in un fumetto, solo guardando la sequenza delle tavole che ripercorre e integra quella delle didascalie ci si rende conto del valore intrinseco dell’opera.
Questo tuttavia è solo il primo di una serie di spunti interessantissimi che Turner ci mostra. Sempre riguardo al tema della diversità, egli ci spinge a riflettere su come questa vada sempre ricercata all’interno delle cose e non sulla loro superficie. Proprio per questo i suoi alieni hanno un aspetto esteriore assolutamente assimilabile a quello della specie umana, tanto assimilabile che la protagonista, ovviamente un’aliena, vive per circa tredici anni in mezzo agli umani senza rendersi conto della sua vera natura e senza che altri notino la differenza. Una razza aliena che quindi potrebbe perfettamente vivere in mezzo a noi.

Altro tema interessante è quello dell’evoluzione. Evidentemente, per essere alieni, questi esseri devono avere delle caratteristiche peculiari. Gli alieni di Turner vivono nell'acqua. Di più, sono fatti di acqua, o meglio ancora sono in grado di trasformarsi in acqua. E dall’acqua sono in grado di sviluppare un'energia devastante, di molto superiore a quella delle armi costruite dall'uomo. Oltretutto sono creature estremamente intelligenti ed evolute, tanto da sviluppare una tecnologia largamente superiore a quella degli umani.
Inoltre, a differenza degli umani, che per quanto evoluti riescono ad essere alquanto stupidi, essi hanno capito che i rapporti con la razza umana sarebbero estremamente difficili. In questo si può cogliere un'ulteriore critica di Turner alla nostra specie. Nel corso dei secoli l’uomo ha preso coscienza della sua evoluzione e si è convinto, sbagliando, di occupare il gradino più alto della scala filogenetica. Da questa consapevolezza è scaturita l’arroganza di dover dominare su tutto quello che lo circonda. La razza degli acquatici, consapevole della sua superiorità evolutiva quanto della sua inferiorità numerica, ha deciso quindi di estraniarsi dalle faccende degli umani, limitandosi ad osservare senza mai mostrarsi. L'uomo ha però commesso l'inconsapevole quanto imperdonabile errore di violare e profanare l'habitat naturale di queste creature. I test per gli ordigni nucleari sono stati la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso, soprattutto quando hanno distrutto una città sottomarina e ucciso migliaia di esseri viventi. Alcuni sono rimasti dell’avviso di non intervenire, cautelandosi in altro modo, altri hanno deciso che la superiorità della loro razza doveva ormai venire alla luce per portare al dominio sul genere umano. Lo scontro è a questo punto inevitabile.

Molti possono essere i messaggi da isolare in questo opera: guerra, evoluzione, terrorismo, complotti militari, coraggio individuale. Tra tutti ne voglio scegliere uno: qualunque azione ci accingiamo a compiere, dobbiamo sempre pensare che avrà delle conseguenze su quanto ci circonda, e inoltre non possiamo mai sapere che cosa c’è nell’ignoto del nostro pianeta. Una cosa è certa: per quanti sforzi facciamo, nel singolo come nel collettivo, ci sarà sempre prima o poi qualcuno che ci supererà. Giudicarsi al di sopra di qualsiasi altra cosa è solo la manifestazione di una cieca arroganza che purtroppo ci portiamo dentro fin dalle nostre prime generazioni.