venerdì 28 dicembre 2007

Labilità

Era inizio estate del 2005, stavo ancora nella casa di Palermo in cui ho passato i primi anni della mia vita universitaria. Immerso fino al collo nello studio (e anche in qualcos’altro, che per educazione non nominerò), scandivo le giornate a forza di capitoli ripassati. Avevo comprato questo libro da poco, e non appena finito di leggere quello precedente, cominciai questo, come lettura serale. In breve, però, erano più le pagine lette per svago, che quelle lette per studio, durante la giornata, e per scacciare il senso di colpa mi dicevo che in fondo non stavo perdendo tempo, che so, uscendo a passeggiare o giocando ai videogiochi. La verità era che questo libro mi aveva stregato, rapito, trascinato in una sorta di dipendenza che mi costringeva a iniziare un nuovo capitolo non appena ne finivo uno.

Non conoscevo Domenico Starnone, e purtroppo non ho avuto occasione di leggere altri suoi libri, fino ad ora, ma proprio ieri sono stato in libreria e ne ho visto uno nuovo, che mi ripropongo di comprare a breve. E forse è proprio perché non lo conoscevo che sono rimasto ancora più affascinato dal suo modo di scrivere. Il protagonista del suo romanzo è uno scrittore che scrive un romanzo di cui è protagonista lui stesso. Già questo basterebbe a capire quanto è abile Starnone. Scrivere una storia che ha come protagonista uno scrittore e l’opera che sta scrivendo è, secondo me, la cosa più difficile con cui si possa cimentare chiunque prenda in mano una penna. Ho letto altri romanzi che hanno come protagonisti degli scrittori, e solo chi padroneggia veramente l’arte dello scrivere è in grado di creare queste opere. Penso, ad esempio, a “La metà oscura” di Stephen King, o a “Lila, Lila” di Martin Suter, di cui spero di parlare, prima o poi. A dire il vero, il reale protagonista del romanzo non è lo scrittore, ma sono i suoi fantasmi. Fantasmi che vengono dal passato, sotto forma di una madre bellissima, di figurine di calciatori, di un padre che continua a morire, di un amico d’infanzia. Fantasmi che entrano da porte di memoria lasciate spalancate proprio da lui, che lo assalgono, lo feriscono, lo privano del sonno. E lo fanno scrivere. Perché lo scrivere condiziona ogni aspetto della vita dello scrittore, dal rapporto con la moglie lontana per lavoro, alle apparizioni in pubblico, agli incontri con l’amante. Tutto quello che è la sua vita è espresso dalle parole, anche quello che chiunque altro non saprebbe concretizzare in suoni o segni. Le parole sono un gioco, aiutano a inserirsi nel racconto bugiardo che ci si fa ogni giorno del mondo. E, arrivato a quella che crede essere la fine della sua carriera, vuole esercitarsi a smettere di parlare, e a smettere di scrivere.
È così. Chi scrive veramente non lo fa perché si impegna a farlo. Piuttosto, l’impegno deve essere nel riuscire a non farlo, perché scrivere è come mangiare, dormire, respirare. Si può trattenere il respiro, ma solo se ci si sofferma a pensare come farlo. E non per troppo tempo, altrimenti si rischia di morire asfissiati. Ma anche respirare, o in questo caso scrivere, conduce alla morte. Una morte strana, diversa, una morte che richiede un coraggio particolare per essere accolta.

“Hai finito il libro?”.
“Di fatto, sì”.
“Sei contento?”.
“No. Ma sono arrivato a una conclusione”.
“Quale?”.
“Ho fallito”.
“Che ne sai?”.
“Ho sbagliato strada”.
“In che senso?”.
“Ho pensato che scrivere fosse la continuazione piacevole dei giochi dell’infanzia”.
“E invece?”.
“Scrivere è vivere fino a morire di scrittura ed io, in tutti questi anni, non ho mai avuto il coraggio necessario”.
“Mai?”.
“Solo una volta, a dieci anni. Ma provai tanto dolore, che non sono andato più per quella strada”.

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