martedì 14 luglio 2009

Blatta

Ho letto fumetti di tutti i tipi, di tutti i generi, su tutti gli argomenti, o quasi. Mi lasciano sempre qualcosa, anche quelli meno pregiati, se così posso definirli. Anche solo quel tempo passato su una poltrona a leggere è prezioso, un tempo in cui esistiamo solo io e le pagine che tengo in mano. Alcuni fumetti mi lasciano dentro un senso di smarrimento, potrei dire di angoscia, in alcuni casi. Qualcosa di opprimente che mentre li leggo mi circonda, con sensazioni che difficilmente riuscirei a provare nella vita di tutti i giorni. Mi è successo con “Blame!”, il manga capolavoro di Nihei. Mi è successo di nuovo con “Blatta”. Per molti aspetti queste due opere si somigliano, si dal punto di vista grafico e narrativo che concettuale.

Siamo in un’epoca imprecisata, in un probabile futuro post-apocalittico, in cui la società umana come la conosciamo non esiste più. Lo stesso concetto di essere umano si è praticamente annullato in ragione di un distorto desiderio di sopravvivenza. Gli individui non sono più uomini ma semplici corpi chiusi in tute di protezione. Vivono da reclusi in celle di pochi metri quadri, senza alcuna possibilità di interazione con gli altri. La loro vita è scandita dalla vuota routine di una luce verde che quando si accende indica l’ora di andare al posto di lavoro e di rientrare a ‘casa’. Un lavoro che nella massima manifestazione di alienazione si riduce a premere in sequenza due tasti indicati dalle lettere ‘Y’ e ‘N’. Sì e No. Immaginare una vita così è già abbastanza angosciante. Immaginare che non finisca mai è l’orrore puro. Ogni individuo, quando muore, viene clonato e la sua coscienza trasferita nel nuovo corpo ospite. Questa è la sopravvivenza dell’uomo. Chi legge vive tutto questo con gli occhi di uno di questi individui, il numero 5.0, perfettamente integrato in questa routine. Ma se il corpo e le azioni si controllano, lo stesso non si può dire dei pensieri e dei sogni. Gli incubi del passato tormentano il soggetto, angosciandolo con il rimorso di aver sacrificato i suoi affetti e la sua famiglia in nome di quella sterile sopravvivenza. Rimorsi, dolore, rassegnazione, paura. Sentimenti negativi che si affollano in quella mente rinchiusa nel suo casco. Tutti tranne uno: la rabbia. Non c’è lotta, in questa vita, non c’è ribellione. Non è pensabile uscire dal sistema. Ma la vita, il caos, non conoscono regole, sistemi, programmi. E si manifestano nella storia di quest’essere nella forma del più repellente degli organismi, quella blatta del titolo, che in uno dei tanti giorni uguali, venuta fuori da chissà dove, si poggia sulla luce verde. Una sorta di manifestazione di quel paradosso della farfalla, secondo cui un evento insignificante che avviene per un breve istante può, nel meccanismo del caos, dare origine ad altri eventi sconvolgenti. E così il protagonista si ritrova catapultato fuori da quella che per lui era l’unica realtà esistente. E incontra qualcuno. Trova (o ritrova) il contatto tra individui. Ma chi ha vissuto per un tempo indefinito in una realtà alienante non è più capace di adattarsi ai cambiamenti, nemmeno ai più piccoli, figuriamoci a quelli grandi. Non è un caso che molti dei sopravvissuti dei lager nazisti si siano suicidati poco dopo aver riacquistato la libertà. Quando ti portano via tutto, non puoi tornare più indietro.

“Blatta” è un’opera molto particolare, non riuscirei a inquadrarla in un genere. Il bianco e nero, le sfumature, le linee, gli angoli di visuale, tutto è studiato e costruito per acuire al massimo quel senso di angoscia che le poche frasi di ogni tavola dichiarano in maniera quasi perentoria. Non ci sono nomi, non ci sono volti, non ci sono espressioni. La narrazione è affidata a pochi gesti, ai chiaroscuri e ai pensieri del protagonista. Pensieri telegrafici come la vita che vive, senza emozioni, senza desideri, senza sogni. Soltanto incubi. E per stigmatizzare il più possibile l’orrore che pervade l’opera, le ultime tavole ci dimostrano che le vicende di uno non sono nulla nel contesto del sistema. Vita e morte non contano niente. la storia finisce come si è conclusa, nella stessa stanza, nella stessa tuta. No, non proprio la stessa. Questa volta, sul pettorale, il numero è cambiato: 6.0!

Un ringraziamento particolare a Filippo e Salvatore che mi hanno regalato questo fumetto.

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