lunedì 26 ottobre 2009

Questa notte mi ha aperto gli occhi

Romanzo molto particolare, questa ultima pubblicazione di Jonathan Coe. Intanto perché, a dispetto della sua data di uscita, la fine del 2008, la gran parte di esso è stata scritta quasi vent’anni prima, nel 1990. In questo senso, è forse uno dei primi romanzi di Coe, di sicuro precedente ai titoli che gli hanno giustamente conferito il successo a livello internazionale. Particolare anche perché, forse in misura maggiore di quanto lui stesso voglia ammettere, lo potremmo definire un romanzo autobiografico. Come ci spiega nella breve introduzione (scritta appunto nel 2008 in occasione della pubblicazione), l’idea della storia nasce proprio dalla sua esperienza personale nel campo della musica. E proprio la musica è il protagonista fondamentale del romanzo, quella musica traboccante di sperimentazioni che negli anni Novanta era praticamente una regola di vita. A quanto pare, il pianoforte è sempre stata la sua più grande passione, superiore addirittura a quella della scrittura, e solo perché non è riuscito a trovare la strada giusta in questo senso Jonathan Coe ha deciso che nella vita avrebbe scritto piuttosto che suonato. Per fortuna, dico io, non essendo granché appassionato di musica, certamente non tanto quanto lo sono di narrativa. La musica, dicevo. Non c’è pagina della storia in cui non ci sia un riferimento esplicito a questa arte, gli stessi capitoli scorrono come i movimenti di un’opera classica, ritmati e scanditi come le battute di uno spartito. In fondo, la musica è un linguaggio, forse il più antico e universale che esista. E anche con la musica, Coe crea i suoi personaggi: William, Madeline, Karla, e tesse una storia intricata, tra passato e presente, che a tratti ha il gusto del comico e del grottesco, a tratti si tinge dei colori del noir, e in buona parte conserva un alone intimista e psicologico che armonizza tutto. Presi in maniera isolata, questi argomenti potrebbero sembrare banali, soprattutto se si conoscono le altre opere di Coe e il modo in cui in questi sono rappresentati. Ma grazie a quel tema musicale in sottofondo, si armonizzano in una storia chiara e gradevole, che parte forse lenta e armonica, ma procede di buon passo verso il crescendo finale in cui sarà tutto un esplodere di grancassa e piatti. E poi, a chiudere tutto, un delicato frammento di melodia per archi, un momento del protagonista cinque anni dopo le vicende della storia principale. E così, arrivati all’ultima pagina, non può venirci in mente nient’altro che andare in città, a cercare gli occhiali che da tutta la settimana pensavamo di comprarci!

Ero talmente innamorato di Madeline che a volte, sul lavoro, mi mettevo quasi a tremare pensando a lei: mi agitavo di paura e di piacere e finivo per far crollare pile di dischi e di cassette. Per questo non mi preoccupavo un granché se la nostra intesa non era delle migliori. Litigare con Madeline era meglio che scopare con qualsiasi altra donna al mondo. L’idea di essere felici assieme – di star sdraiati nello stesso letto, silenziosi e mezzi addormentati – era talmente paradisiaca che non riuscivo nemmeno a visualizzarla.

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