lunedì 22 febbraio 2010

All star Batman e Robin

Quando un personaggio ha molti anni di storie alle spalle, è normale che si facciano diverse interpretazioni degli eventi cardine della sua vita. Quando il personaggio è una leggenda come Batman, questo è praticamente la regola. Tuttavia, i grandi autori che si trovano a percorrere a ritroso il cammino del tempo, reinterpretando storie già raccontate, in genere rispettano le tematiche di fondo di quelle storie, soprattutto per mantenere una sorta di coerenza narrativa ed evitare di distorcere l’essenza dei protagonisti. Però capita che autori particolarmente carismatici decidano di seguire il corso della loro fantasia, tenendo in ben poco conto l’opera dei loro predecessori. È questo il caso di Frank Miller.

A questo punto devo fare una piccola parentesi: non mi piace per niente Frank Miller. Non tanto come disegnatore, ruolo in cui riesce a trovare soluzioni innovative e di un certo effetto, quanto come scrittore. È incontestabile che abbia uno stile di narrazione molto personale, che affronti con disinvoltura anche tematiche piuttosto delicate, soprattutto per un mondo come quello del fumetto che ancora oggi risente degli strascichi di anni di proibizionismo narrativo. Tuttavia, il suo modo di raccontare non incontra il mio gusto. Non mi sono mai piaciuti gli eccessi, ma soprattutto non sopporto il machismo testosteronico di cui Miller ha fatto il suo cavallo di battaglia, soprattutto quando questo è del tutto fuori contesto. Non ho niente da ridire sull’esaltazione che si ritrova negli spartani di “300”, perché non è affatto lontana dalla realtà storica e dalla tradizione narrativa di quell’episodio. Posso ancora comprendere questo tipo di narrazione in un’opera come “Sin city”, dalle atmosfere prettamente noir, dove la violenza, il turpiloquio e la degradazione sono le basi portanti della storia. Ma non riesco ad accettarla in una storia di Batman.

In “All star Batman e Robin” leggiamo una rivisitazione degli eventi che portano il Cavaliere oscuro ad avere la sua prima spalla. Quando Bruce Wayne vede il piccolo Dick Grayson in mezzo ai cadaveri dei suoi genitori, non può non rivedere se stesso in quella fatidica notte che cambiò per sempre la sua vita. Così, decide che il ragazzo va preso sotto la sua protezione, per essere addestrato a combattere il crimine al suo fianco. Questo è sostanzialmente l’impianto narrativo della storia. Ma al di là dei momenti tragici e di qualche riflessione psicologica di un certo livello, c’è poco altro che colpisce, nell’opera, e certamente non in senso positivo. Sicuramente è interessante vedere le considerazioni di Batman quando da un lato vede che il ragazzo ha il talento che gli servirebbe avere al fianco nella sua crociata, ma dall’altro si rende conto che in questo modo lo condannerà alla sua stessa vita infelice e solitaria. Bello e intenso, a tal proposito, è anche l’acceso scambio di battute tra Batman e il maggiordomo Alfred, che gli fa notare come imporre le sue scelte di vita a un ragazzino di dodici anni possa essere una decisione discutibile. Al di là di questo, però, vediamo degli atteggiamenti dell’eroe che si fa fatica a riconoscere come suoi. Siamo abituati ad un Batman che si muove come un’ombra terrificante e silenziosa, che nessuno vede o sente finché non ha colpito. Qui invece, annuncia il suo arrivo con una risata ghignante, giustificandola come un altro degli artifici volti a incutere terrore nei criminali. Siamo abituati ad un Batman cupo e silenzioso fino al mutacismo patologico, freddo e riflessivo, mai preda di emozioni di alcun tipo. Qui invece, lo vediamo esaltarsi in una corsa di auto, sfidare i poliziotti solo per il gusto di mostrare la sua superiorità, ostentare le tecnologie della sua attrezzatura solo per impressionare il piccolo Dick. Insomma, un Batman spocchioso e arrogante, pieno di sé, esaltato dal mito della sua stessa maschera. Tutti tratti di un carattere che poco si accosta alla figura del vero Batman. A qualcuno potrà anche piacere questa interpretazione, ma a mio modo di vedere questo non è il Batman che ho imparato a conoscere e amare in tanti anni di storie.

Discorso a parte meritano i meravigliosi (come al solito) disegni di Jim Lee, che non delude mai i suoi fan e ci regala tavole di grande intensità e dinamismo pur non tralasciando quella cura dei dettagli che lo contraddistingue da sempre. Spettacolare in tal senso l’enorme splash page a sei facciate che raffigura il primo ingresso di Dick nella Batcaverna. In definitiva, se dovessi dare dei numeri, direi che le ragioni per voler tenere in mano il volume “All star Batman e Robin” sono 20% storia e 80% disegni, nonostante io sia un convinto sostenitore che un fumetto deve essere prima di tutto ben scritto, poi ben disegnato, e non il contrario.

lunedì 15 febbraio 2010

Il gioco dell'angelo

A volte può essere difficile inquadrare un romanzo in un genere preciso, per esempio quando in esso confluiscono diversi motivi narrativi, tanto che è difficile capire se è una storia impegnata, sentimentale, di fantascienza, dell’orrore. Il secondo libro ‘adulto’ di Carlos Ruiz Zafon è proprio di questo tipo. L’ho chiamato così solo per distinguerlo dalle sue precedenti opere, che, escludendo “L’ombra del vento”, sono tutte storie per ragazzi. Non che queste abbiano un valore più scarso rispetto ad altre, anzi, a mio modo di vedere sono da tenere in altissima considerazione, perché avvicinare un bambino alla lettura significa dargli la possibilità di arricchire il suo patrimonio culturale, il suo lessico, la sua sintassi, e visto che purtroppo oggi la maggior parte dei media, televisione in testa, ha fatto dell’ignoranza e della distruzione della cultura i suoi vessilli di battaglia, non ci resta che sperare che sopravvivano ancora autori con la voglia di scrivere per i bambini e i ragazzi. Dicendo questo, e leggendo il romanzo ve ne renderete conto, non ho fatto il mio classico preambolo iniziale, di cui probabilmente vi sarete ormai stancati, ma ho già cominciato a parlare della storia. “Il gioco dell’angelo” è, a mio modo di vedere, nient’altro che una stupenda, intensa e tormentata storia d’amore per la letteratura.

Il giovane David Martin ha una sola grande passione, nella vita: diventare uno scrittore. Fin da bambino ha sempre avuto una forte attrazione per la lettura, ferocemente contrastata dall’ignoranza del padre, ma alimentata in segreto grazie all’amicizia di un libraio di cui il ragazzo diventa, poco a poco, una sorta di figlio adottivo. Passando attraverso la redazione di un giornale locale, e grazie al supporto di un ricco giornalista che lo prende sotto la sua ala protettrice, il giovane Martin riesce a pubblicare dei racconti d’appendice a puntate, e finalmente sbarca nel mondo dell’editoria scrivendo storie avventurose ambientate nella sua Barcellona. David ha talento, sa come coinvolgere il pubblico, e soffre dei vincoli in cui lo costringono quei poco di buono dei suoi editori, tutt’altro che persone oneste. Ma la vita del giovane sembra essere destinata a non conoscere la felicità. Viene colto da un male incurabile che lo sta consumando, la ragazza di cui è da sempre innamorato decide di sposare il suo mentore, le richieste dei suoi editori si fanno sempre più pressanti e minacciose. David sembra destinato a scivolare verso un abisso di disperazione, una caduta inesorabile che lo porterà a morire di lì a non molto, quando incontra uno strano personaggio, un editore in cerca di talenti che ha per lui una commissione molto particolare. Se David vuole continuare a vivere, lui lo renderà possibile, a patto che scriva per lui. E il suo compito sarà quello di creare una religione. Inconsapevole di chi sia realmente la persona con cui sta stringendo l’accordo, e ignaro delle conseguenze che questo porterà, David accetta. Inizia così la sua nuova vita. Ma alcune cose cominciano a non quadrare, troppi sospetti si affollano nella sua mente, troppi misteri sono legati a quell’uomo, al suo libro, alla casa dove David va a vivere e a molte delle persone che incontrerà nel suo percorso. E quando si renderà conto di quale sia la realtà che si cela dietro il gioco dell’angelo, potrebbe essere troppo tardi. Gli ingranaggi sono stati messi in moto, la macchina della violenza e dell’orrore si è attivata, e non sarà facile arrestarla o rallentare la sua corsa.

Con un sottile e complesso gioco di specchi, Zafon mischia gli occhi del lettore con quelli del protagonista, al punto che non sarà facile capire cosa è reale e cosa è solo immaginato, nemmeno nella storia. Inoltre, a differenza di come siamo abituati, non tutti i misteri verranno svelati da un comodo colpo di scena finale. Ci saranno alcuni punti oscuri, nel corso della storia, che rimarranno tali anche dopo la fine, come di fatto succede anche nella vita reale. Tutto quello che accade, accade per una ragione, ma a volte, per non dire spesso, questa ragione ci sfugge, e forse è proprio questo che rende la nostra vita interessante.

Uno scrittore non dimentica mai la prima volta che accetta qualche moneta o un elogio in cambio di una storia. Non dimentica mai la prima volta che avverte nel sangue il dolce veleno della vanità e crede che, se riuscirà a nascondere a tutti la sua mancanza di talento, il sogno della letteratura potrà dargli un tetto sulla testa, un piatto caldo alla fine della giornata e soprattutto quanto più desidera: il suo nome stampato su un miserabile pezzo di carta che vivrà sicuramente più a lungo di lui. Uno scrittore è condannato a ricordare quell’istante, perché a quel punto è già perduto e la sua anima ha ormai un prezzo.

lunedì 8 febbraio 2010

Il divoratore di storie

Sono sempre stato affascinato da quegli autori capaci di scrivere una storia in cui si racconta come nasce una storia. So che sembra un concetto ingarbugliato, ma cercherò di renderlo il più chiaro possibile. È come se un autore scrivesse un romanzo, il cui protagonista è a sua volta uno scrittore, e la trama riguarda la creazione dell’opera del protagonista. In definitiva, staremmo leggendo la storia di una storia. Un po’ come se un pittore ritraesse un pittore che dipinge, e l’opera di quest’ultimo fosse ancora un pittore che dipinge, e così via, in una potenziale infinità di storie una dentro l’altra, come in un gioco di scatole cinesi. Altro espediente molto affascinante, per me, è quello in cui un autore scrive di un personaggio che è se stesso nel mondo reale, e ciò che fa è esattamente scrivere la storia di cui stiamo leggendo. Tutte queste possono sembrare assurde follie, esercizi stilistici utili solo a confondere il lettore, trascinandolo in un universo di doppi sensi in cui si perde di vista la linearità della storia, e tutto questo solo perché è sempre difficile scrivere una storia interessante restando nei canoni della normalità. In parte, questa critica può essere fondata, ed è quella che è stata mossa ad alcuni autori contemporanei, ‘accusati’ di fare i pazzi per abitudine, senza che il loro scrivere surreale si concretizzasse in qualcosa di innovativo, ma semplicemente di incomprensibile. È quello che è stato detto di autori come Alan Moore e Grant Morrison, tanto per fare due esempi immediati. E ricordo anche un romanzo di Stephen King, “La metà oscura”, in cui l’autore scrive la storia di uno scrittore che scrive romanzi di scarso successo, mentre quando lo stesso personaggio usa uno pseudonimo e cambia completamente stile di scrittura, le sue opere incontrano un enorme apprezzamento. Tutto questo per dire che scrivere così è molto difficile, si corrono parecchi rischi, ma chi lo sa fare crea delle opere veramente fuori dal comune. Proprio questo è quello che, a mio giudizio, possiamo trovare ne “Il divoratore di storie”, un omaggio che Fabrice Lebeault fa al romanzo d’appendice.

Siamo in un paese immaginario che evoca la Parigi del XIX secolo, e Fortuné d’Hypocondre, un giornalista dai sentimenti vagamente anarchici, riceve una curiosa visita. Il Corvo, protagonista di un romanzaccio d’appendice, si manifesta nella realtà, provenendo dal mondo degli immaginati, con un preciso obiettivo: ottenere la fama che crede di meritare. La sua aspirazione è il crimine, la bassezza d’animo, l’incarnazione del male. E non è per nulla soddisfatto delle storie che gli fa vivere il suo creatore, il misterioso Homére Saint-Illiéde, di cui nessuno conosce l’aspetto né il luogo in cui viva. Creduto pazzo ed emarginato, a Fortuné non resta altra soluzione che aiutare il misterioso personaggio a scrivere la sua stessa storia, e per farlo, l’unico modo è trovare l’autore e convincerlo a cambiare la trama.

In questa particolare graphic novel, Lebeault crea un ambiente deliziosamente antico ma al tempo stesso attuale, con una bella riflessione sulla forza della letteratura e degli scrittori, che con la loro immaginazione possono essere capaci di cambiare il destino delle persone, spesso anche di quelle reali. Tutta la trama si gioca sull’alternarsi di diversi piani di realtà, da quella del mondo reale del giornalista, a quella del romanzo il cui protagonista diventa il suo fastidioso interlocutore, a quella della trama che il Corvo vorrebbe scritta nelle sue future avventure dal creatore, fino alla scoperta di chi quest’ultimo sia realmente, di come crei le sue avventure, e della sinistra origine della sua immaginazione e ispirazione. E alla fine, quando mistero, intrighi e delitti saranno svelati, il personaggio si farà persona, e la persona si farà personaggio, in un curioso e tragicomico teatrino dell’assurdo in cui tutti, siano essi persone o personaggi, sono comunque burattini i cui fili sono mossi dal solito burattinaio, l’autore, che ci regala questa coinvolgente storia, ricordandoci ancora una volta che non c’è potere più grande dell’immaginazione umana.

lunedì 1 febbraio 2010

Sette yakuza

Un viaggio nella cultura tradizionale giapponese conclude la serie dei sette, raccontandoci una storia di malavita e onore, ma è anche la storia di un’intera terra che racchiuse in sé molte più anime di quante sia disposta ad ammettere. Il Giappone è un mondo che ha sempre affascinato per la sua diversità, per la presenza di valori e comportamenti che per gli occidentali risultano tanto inconsueti quanto poco comprensibili. Più che altro, a stupire è il contrasto tra valori considerati positivi e la reale natura delle persone. In occidente si è abituati a pensare a un criminale come a una persona priva di scrupoli, incapace di sentimenti, una persona per cui la vita umana, con tutto quello che ne consegue, ha ben poco valore. Invece, nella tradizione orientale, ci sono dei valori che devono governare la vita di una persona, a prescindere da quale sia il percorso che questa decide di compiere. Così, non importa se si è un uomo onesto o un criminale, principi come onore, rispetto e lealtà non devono mancare. Anche la propria vita può essere sacrificata per il perseguimento di quei valori, così come è un onore privarsene quando è arrivato il momento.

Kotobuki Ichiro è un uomo che ha vissuto da sempre secondo questi principi, anche se ha scelto di percorrere la strada della delinquenza diventando uno yakuza. Oggi, a novantacinque anni, è l’oyabun di uno dei clan più potenti e rispettati, ma subisce un attentato dal quale si salva per miracolo. Guarito dalle ferite, l’unico suo pensiero è vendicare l’affronto subito uccidendo i suoi attentatori. Così, scopre la lealtà di altri sei personaggi, che anche se animati da motivi diversi, sono tutti pronti a dare la vita per la vendetta del loro capo. E quando alla fine si scoprirà chi è il mandante dell’attentato e per quale motivo vuole morto il padrino, a Kotobuki non resta che una cosa da fare, l’unica cosa che uno yakuza sa di dover fare quando è giunto il momento.

Al di là della storia d’azione, ci sono vari aspetti interessanti nel racconto. Uno è il ricordo dei diversi avvenimenti della storia del Giappone moderno attraverso l’esperienza del protagonista, che rivive la sua vita negli anni che hanno contribuito a renderlo quello che è adesso. E questo motivo narrativo si ripeterà più o meno per tutti i sette protagonisti. Altro aspetto interessante è la fusione tra nuovo e antico in questa terra piena di contrasti, così come da notare è la confluenza di diverse etnie e l’influenza di culture esterne, quale ad esempio quella americana durante il secondo dopoguerra, o le migrazioni di abitanti del vicino continente asiatico, come coreani e cinesi, nell’arcipelago che sta conoscendo uno sviluppo dai ritmi vertiginosi. Tutto questo e altro ancora è espresso sia dai divertenti scambi di battute tra i protagonisti, sia dagli imperscrutabili silenzi, in cui si legge una calma e una riflessione, anche in momenti di azione incalzante, che solo secoli di disciplina hanno saputo fortificare.