venerdì 14 gennaio 2011

Il buon ladro

Romanzo interessante, comprato per caso, un po’ come quasi tutto quello che compro, del resto, e che mi ha fatto riscoprire un genere di lettura che mi mancava da parecchio tempo. È quel tipo di romanzo che ti piace non tanto per quello che ti lascia alla fine dell’ultima pagina, ma per quello che vai trovando mentre lo leggi. Volendolo inquadrare in un genere, potremmo farlo rientrare tra i romanzi di formazione, quelli che narrano il percorso di crescita di un giovane catapultato nel mondo. In effetti questo aspetto è presente nel romanzo di Hannah Tinti, ma non è certamente l’unico e, forse, nemmeno il più significativo.

Ren, un orfano cresciuto in un convento fuori del quale è stato abbandonato appena nato, vive la sua vita con gli altri orfani, aspettando e sperando che un giorno per miracolo arrivi qualcuno ad adottarlo, prima che giunga l’età in cui potrà essere arruolato nell’esercito. E, proprio quando meno se lo aspetta, quel momento arriva. Un giovane uomo, che dice di essere lo zio del ragazzo, lo porta con sé sostenendo di essere l’unico familiare che gli rimane. Ma, appena portato via il ragazzo, Benjamin Nab si dimostra ben diverso da come si è raccontato ai frati del convento. Di fatto, dietro quella parlantina tagliente e quell’aria di chi conosce bene il mondo, si nasconde un imbroglione patentato, come Ren avrà modo di scoprire non appena avrà modo di vederlo all’opera. Comincia così un tortuoso percorso costellato di loschi affari, infarcito di tonici miracolosi, esibizioni pietose per abbindolare i creduloni, bevute ed espedienti vari per tirare a campare, ben oltre i margini della legalità, un percorso che sarà destinato a portare al ragazzo quello che non ha mai osato chiedere nemmeno nei suoi desideri più segreti.

Il romanzo procede, con una scrittura lineare e pulita, una narrazione impersonale e un ritmo sostenuto, attraverso una sequenza di vicende avventurose, alcune comiche e altre drammatiche, fino a fondersi in qualche caso in un contesto grottesco. Ma non è questo, secondo me, il punto di forza del romanzo. Al di là dello stile dickensiano, degli intermezzi di fantasia e delle pennellate macabre e inquietanti quasi da racconto dell’orrore, quelli che spiccano sono i personaggi.
Tutti quelli che incontriamo seguendo il percorso di Ren sembrano usciti da una galleria di figure ben al di fuori dei canoni della quotidianità. Un imbroglione affabulatore, un ex maestro alcolizzato, un gigantesco assassino in abito viola seppellito vivo e riesumato, una locandiera sorda, un nano che vive sopra un tetto e scende dalla canna fumaria del camino, due gemelli maledetti, un medico che acquista clandestinamente corpi per fare studi di anatomia, un losco industriale con un corteo di delinquenti a fargli da guardie del corpo. Da questo coacervo di personalità assurde, il giovane Ren saprà, con grande fantasia e capacità affabulatorie, ricavare quella famiglia che nella sua visione di orfano non può che costituire la ricchezza più grande. E, ultima ma non ultima, il romanzo ci consegna una grande verità: nei momenti in cui Ren e Benjamin avranno bisogno di trarsi d’impaccio, scopriremo insieme a loro il potere inarrestabile e il fascino irresistibile di una storia ben raccontata.

Si voltò e guardò la cantina dove si faceva il vino, poi la cappella e infine l’orfanotrofio. Era difficile credere che non avrebbe più lavorato, pregato e dormito in quel luogo. Tutto ciò che aveva sempre desiderato era andarsene, ma ora che stava per farlo si sentiva a disagio. Andò fino al muro alto che circondava gli edifici e premette il palmo umido sui mattoni. Aveva la consistenza di sempre.

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